Roberto di Tony Coppi
Sta per uscire come personaggio del mese un amico che i fedelissimi di VE-LISTA conoscono, Tony Coppi, poliedrico ,velista e navigatore ( e non mi spingo oltre) del quale vi anticipo non la sua “storia” ma un suo racconto di mare, così facciamo tutti la sua conoscenza come scrittore.
ROBERTO racconto di Tony Coppi
Un incidente in un mare forza otto, le ubbie di un americano, una strage di tonni. Roberto, partigiano, anarchico, bagnino, velista, pescatore, di poche parole: un amico.
L’auto corre liscia sull’autostrada, attraverso il panorama sempre dolce delle colline pisano-livornesi, sostituite presto dallo scenario spettacolare delle Apuane tra Massa e Carrara, le ferite delle cave di marmo bianchissime, le cime più alte ancora innevate.
Poi la sequenza delle gallerie liguri, interrotte da sprazzi di mare e da paesini arroccati. Il lungo tratto di raccordo sopra Genova per immettersi sulla Genova Ventimiglia, e poi Varazze.
Il ricordo dell’amico Roberto lo assale, misto di nostalgia e di perdita. Con lui, compagno per anni delle sue avventure di vela, ha navigato queste acque in tutte le stagioni. Con lui ha preso il mare più forte della sua vita, sessanta nodi di vento e onde formate forza otto tra Villefranche e San Remo, nell’ottobre di molti anni prima, con un bel tredici metri dei Cantieri del Trasimeno.
Già quando stava uscendo dalla baia di Villefranche con il mare in prua vedeva Roberto sparire completamente sommerso, un’onda si e una no, attaccato allo strallo insieme ad un suo giovane nipote, per calare il fiocco 3 e issare la tormentina. Poi riemergeva, quando la barca usciva dal cavo dell’onda e si inerpicava tremando su quella successiva, grondando acqua dalla sua muta gialla e dal berretto di lana blu, tranquillo come se stesse passeggiando il cane.
Con tre mani di terzaroli sulla randa – quella barca non aveva la randa da tempesta – la tormentina già imbevuta d’acqua prima ancora di salire sullo strallo, doppiata la punta puggiando di quasi due quadranti, battevano oltre dodici nodi con il vento al gran lasco, il log inchiodato a fondo scala.
La ruota del timone gli chiedeva tutte le braccia e il peso del corpo per governare in zighellata, sui cavalloni alti e frangenti da poppa. “Guarda avanti, non ti girare mai indietro”. E come per miracolo l’onda arrivava e si rovesciava fragorosamente subito sotto la poppa del CT43, che alzava il culo lasciandola passare.
La barca saliva con la prua rivolta in basso per quattro, cinque metri, sempre più in alto, prima di cadere vertiginosamente in discesa lungo la parete dell’onda verso il fondo, quasi ingovernabile.
Il peggio lo pigliarono al largo di Montecarlo: una puleggia di rinvio dei frenelli del timone all’improvviso cedette. Tony sente ancora vivissima l’impressione della ruota che girava libera e senza più resistenza nelle sue mani, mentre il tredici metri sull’onda si traversava di colpo al vento e al mare. Attimi di tensione:
“La barra di rispetto, forza Roberto, è di sotto sulla sua mensola sopra la cuccetta di poppa”. Mentre Roberto apriva il tambucio e agguantandosi ai corrimano si tuffava all’interno Tony si guardò intorno. Il mare era completamente bianco e il vento strappava la schiuma dai cavalloni frangenti e la trasportava per centinaia di metri, rendendo l’aria irrespirabile.
Tra il cavo e la sommità delle onde si aprivano baratri di sei metri, nei quali il CT43 cadeva, sempre coricato su un fianco, con il boma in acqua, malgrado che le scotte fossero completamente lasche. Per un attimo lui si perse nello spettacolo terrificante di quelle montagne in movimento, alte quasi come la prima crocetta; poi gli schiocchi violenti delle vele lo richiamarono alla realtà. Cazzarle un poco per evitare di perderle fu duro, ma subito la barca riprese la corsa con una rotta perpendicolare a quella precedente – verso il largo – tutta coricata sul fianco sinistro; l’acqua copriva falchetta e camminata di coperta, invadendo il pozzetto, con gli ombrinali che non riuscivano a scaricarla. Sentì Roberto urlare da sotto, ma non riuscì a capire. Poi vide la sua testa subito sotto lo scorrevole contro il che gli gridava: “Non la trovo, non la trovo”.
Il Cantiere di Villefranche aveva preparato il CT43 per il salone, svuotandolo praticamente di tutto. Ma Tony conosceva Joseph Masnata: non avrebbe mai commesso un errore di questo genere: “Cercala sotto le cuccette!” E infatti la barra di rispetto pochi minuti dopo apparve, coricata nel gavone, un metro e mezzo di douglas con il bicchiere in acciaio inox massello.
Ci volle pochissimo per montarla, ma nella manciata di minuti che passarono dalla rottura della timoneria alla ripresa della corsa Tony si era fatto un’idea precisa: la barca non correva pericoli. Se la lasciava senza governo si metteva da sola in cappa, traversata al mare e coricata sul fianco, la remora del bulbo che rompeva il montare e il frangersi delle onde a poche decine di centimetri dalla murata di sopravvento.
Agguantati tutti e due con entrambe le mani sulla barra, durissima, ripresero la rotta verso San Remo. Meno di un paio di ore dopo entrarono nel porto a vela con una accostata di novanta gradi, cogliendo la pausa periodica – ogni sei onde un paio meno mostruose – con la gente sul molo a guardare e ad applaudirli appena dentro.
“Non ti avevo mai visto sbiancare” disse dopo a Roberto, mentre il CT43 si pavoneggiava in banchina. “Non mi era mai capitato di credere di essere senza barra di rispetto, con la timoneria rotta, in un mare forza otto. E tu, di che colore pensi di essere stato?” Ci risero sopra: lui con il suo sorriso malizioso, una palpebra leggermente abbassata, stranamente accattivante. Una risata che conteneva tutto: cameratismo, amicizia, sollievo per la fine fortunata di un’avventura che avrebbe potuto avviarsi per una strada molto diversa. Così pallido Tony rivide Roberto una volta sola, steso sul letto, stroncato da un tumore ai polmoni.
Quel giorno sul litorale a poca distanza dal porto mare e vento avevano rovesciato un Comet 11 con l’albero di traverso sui binari della ferrovia. Ne ammirarono con un brivido la fotografia la mattina dopo sulla pagina locale di un quotidiano.
I ricordi si affollano alla mente di Tony, ordinati da associazioni imprevedibili, mentre l’auto corre veloce ora già verso Savona.
Quanti tombarelli e bonitos pigliarono l’anno successivo, sempre di ottobre, davanti a Capo Mele! Videro già da lontano il frenetico volo dei gabbiani, segno che i branchi di acciughe “facevano la palla” – unica possibilità per un pesce destinato dalla natura ad essere il cibo più ricercato e più indifeso dei nostri mari. Le acciughe attaccate dai tonni, dopo un primo tentativo di fuga si stringono in branco fino a sembrare un globo unico, solido e compatto, nella speranza che i tonni li vedano come un solo animale, troppo grosso per entrare in bocca. Ma i gabbiani dall’alto, come impazziti, si tuffano e risalgono in un frenetico groviglio di voli, rompendo il branco. I tonnetti si scatenano e le acciughe saltano sull’acqua nel disperato tentativo di sfuggire alla caccia famelica.
Calato velocemente il genoa Tony accese il motore. Sotto la spinta dell’elica la barca con la sola randa raggiunse rapidamente i sette nodi, velocità ottimale per la pesca alla traina. Tenendo la prua con continui cambi di direzione sul volo dei gabbiani, non facevano a tempo a recuperare una lenza che l’altra era già in tensione. Roberto ne tirava su uno dopo l’altro, con il colpetto classico del pescatore da canna e un sorrisetto tra il compiaciuto e il malizioso, come per dire:
“Vedi, ne piglio sempre più di voi”.
Poi liberava l’amo, con la mano percorsa dal tremito che aveva ereditato dal padre, e filava la lenza in mare. Alla fine non c’era più bisogno del cucchiaino: bastava il luccichio dell’amo e un pezzo di nylon di tre metri, ed era un movimento continuo dall’acqua alla barca, fino a che tutto il pozzetto fu pieno di bonitos e tombarelli agonizzanti, e di sangue.
La sera fecero arrivare in treno a Varazze dei nipoti di Roberto, che si portarono via quattro sacchi grandi da spazzatura con una ottantina di tonnetti, più di un quintale e mezzo. Tony e Roberto si fermarono in paese e non senza qualche difficoltà trovarono un ristorantino – si scendevano pochi scalini – che accondiscese a cucinarne uno, fornendo vino, primi e contorni. Preparato alla siciliana, con olive nere capperi e pomodoro fresco, era veramente squisito.
Parlarono tutta la sera con il proprietario, un appassionato di pesca, che con un solo tonno tirava su lo stesso peso che avevano fatto loro con ottanta.
Quello fu l’unico tonnetto che Tony mangiò di quella mattanza; e quella fu l’unica “mattanza” che fece. Da allora a traina pesca solo la quantità che serve per la cena, o al massimo qualche tonnetto in più per farne un po’ sott’olio: un lavoro lungo ed improbo sui piccoli fornelli della barca, ma l’entusiasmo e la velocità con cui viene consumato dagli amici lo ripaga ampiamente della fatica.
Sempre a Varazze, ancora la primavera successiva, si fermarono, Roberto e Tony, per vedere un gran premio di formula uno alla televisione di un bar, prima di proseguire la navigazione per tutta la notte, per portare a Viareggio un Comfortina che avevano ritirato a Mentone. Roberto aveva quindici anni più di Tony, alto circa come lui, capelli bianchi da subito, un profilo deciso sempre cotto dal sole; ed era un uomo di mare. Partigiano, anarchico (il suo motto preferito:”Montura qualunque fa razza di cane, anche portiere d’albergo”) bagnino, pescatore, velista, di poche parole.
Avevano una grande stima reciproca, anche se Roberto la dissimulava sotto lo sfottò classico dell’uomo più anziano.
Ma in mare gli ubbidiva senza discutere e lo seguiva dovunque.
Anche Tony gli affidava la barca con assoluta fiducia. Una sera veniva da Lavagna da solo e il giorno dopo doveva essere in Elba. Arrivato stanchissimo a Viareggio ormeggiò nel canale per riposarsi e gli telefonò. Un’ora dopo Roberto era già a bordo. Usciti dal porto verso le nove misero la barca in assetto. Si era fatto buio e navigavano tutti invelati con un grecalino fresco. Tony gli disse: con delle ciabattine di due numeri più piccole “Se te la senti di farti un paio d’ore da solo al timone io vado a riposare, che sono stanchissimo. Quando vuoi chiamami, che ti do il cambio”.
Alle sei della mattina dopo si svegliò sentendo mettersi in moto il motore. Erano davanti all’Enfola. “Non dovevi chiamarmi per il turno?”
“Eri stanco e mi sono divertito moltissimo. C’è stato vento tutta la notte e la barca andava come una spada. Ti pare che avrei rinunciato?”
Roberto era così, generoso e disponibile, ma non sempre e non con tutti. Una volta Tony si impegnò con un amico (proprietario di un cantiere) a portare una barca nuova a Mentone, per far fare pratica all’armatore: un americano settantenne, sicuramente bravo velista, ma con un pessimo carattere da adolescente viziato e mai cresciuto. La barca era grande, perciò Tony chiese a Roberto di imbarcare alcuni amici suoi, massesi e carrarini, gente dura, e partirono. Mr Clement dormiva a prua, nella cabina armatoriale. La mattina successiva, ancora in navigazione larghi da terra, venne sul pozzetto come una furia.
“Il mio coltello, chi ha rubato il mio coltello…”
Tony, l’unico che parlava inglese, cercò di calmarlo e di farlo ragionare, ma riuscì solo a farlo rimuginare immusonito in un angolo: “Gli italiani sono tutti ladri”…
Appena tradotta la frase a Roberto e agli altri, si scatenò un fiotto di commenti irati e una serie di suggerimenti: “Che aspetti a buttarlo in mare?” oppure “Cerchiamo il coltello e poi glielo ficchiamo su per…”
A metà della giornata, erano al centro del golfo, Tony lo vide tagliare un pezzetto di cima con un bel coltello da marinaio. Gli chiese: “Ma non le era stato rubato?”
Fu onesto: “Era caduto fra la murata e il materasso”.
Non chiese scusa a nessuno, ma Roberto mormorò un “Ah si?” forse più a se stesso che agli altri. Quando Mr Clement scese in cabina, fece un cenno a Luciano, che ammiccò e scese in tuga. Ritornò sul pozzetto con le scarpe dell’americano prese dal cesto sotto il carteggio, e gliele lanciò. Roberto, con un gesto fluido e senza soluzione di continuità le prese al volo e le filò in mare:”Cerca le scarpe adesso. Te le hanno rubate gli Italiani”disse fra le risate generali. Poi scese in cucina, dove l’americano aveva riposto un vasetto di marmellata di mirtilli, di un bel rosso scurissimo con tutti i frutti interi (“this is for my breakfast only”).
Con un cucchiaio spalmò la marmellata sulle fette di pane e tutti ci fecero merenda. Lasciò per mr Clement un solo mirtillo sul fondo del barattolo. La mattina dopo, quando lui stava cercando disperatamente la sua marmellata, Roberto gli disse in puro massese: “Se cerchi i mirtilli te li hanno rubati gli italiani”.
Fu così che l’americano chiese a Tony di farlo scendere ad Alassio; non ce la faceva più e dovette farsi mezzo chilometro dalla banchina al paese con due infradito di un numero più piccoli, pescati nella cesta da Tony, per obbligo più che per compassione, perché nessuno volle imprestargli nemmeno gli zoccoli.
Il ricordo di Roberto gli fa compagnia lungo la Genova Ventimiglia, mentre supera Albenga: innumerevoli tempi della sua vita, scanditi dal mare. Gente che ha conosciuto, che lo ha accompagnato per pochi minuti o per anni nel brevissimo cammino che lo ha condotto dopo i quaranta, inesorabilmente oltre il mezzo secolo.
Da questi pensieri a ricapitolarsi è un soffio. Una vita che vuole credere diversa – ed é in fondo solo un vezzo che gliene rende meno sgradevole il peso – nel segno della sua continua insofferenza alla prepotenza e alla prevaricazione, con un ideale di libertà e di giustizia a cui spesso ha sacrificato le vie più facili dell’accomodamento e dell’interesse. Nessuna bandiera politica; e ne ha pagato lo scotto nei continui confronti con la realtà di un Paese dove conti ed emergi solo se sei allineato. In fondo può dire di aver vissuto la sua vita non come la voleva, perché l’avrebbe voluta facile e ricca; ma come diversa non avrebbe potuto viverla, rimanendo se stesso. Con un solo rimorso: quello semmai di non essere riuscito, qualche volta, ad essere conseguente.
Il viaggio fino ad Imperia si è bruciato in un attimo, senza che quasi se ne accorgesse.
E ne ricorda un altro, quando Gardini era ancora vivo e la vela italiana volava con il grande vento di Coppa America in poppa. La prima conferenza stampa a St Tropez nel 1989, con pochissimi giornalisti scelti, poi, il giorno dopo, l’invito di Gardini ad imbarcarsi fino ad Antibes, il suo porto di armamento.
Un Gardini rilassato, che godeva del mare e della barca e vinceva la sua naturale ritrosia a raccontarsi.
Un grande rimpianto, una profonda malinconia colgono Tony a quei ricordi. La fine di un tempo, che ha coinciso con la fine di un uomo che lui stimava moltissimo e a cui si era affezionato.
Ma ora il lavoro lo aspetta e la sua mente lascia il passato per tornare lucidamente al presente, all’incontro che avrà da lì a poco.