Mal di Grecia… o meglio mal d’Egeo
Vado in Grecia da…..una vita, credo da oltre 50 anni, e sempre in Egeo, perché per me la Grecia è l’Egeo. Lavoravo a quei tempi, e le ferie non superavano le due settimane, per cui il viaggio per raggiungere la meta, sempre un’isola, era in aereo fino ad Atene, poi di corsa al Pireo da dove partivano i traghetti, che in tre giorni facevano la spola (A/R) con la destinazione più lontana. Gli itinerari partivano dal Pireo e le rotte erano tre: a nord , al centro o a sud dell’Egeo, toccando tutte le isole, mediamente una ogni ora. Assistere alla manovra di attracco era uno spettacolo: il traghetto arrivava in velocità, prua alla banchina, dava fondo all’ancora, appena questa agguantava il fondo lo scafo si girava di 180° presentando la poppa a terra, e con un preciso lancio delle cime, usando il testimone con il pugno di scimmia, in pochi minuti la motonave era ormeggiata, con due cime a poppa e l’ancora in tiro a prua…
Per me che venivo dal mondo delle navi l’ammirazione per gli ufficiali che facevano quelle manovre, precise al millimetro, era enorme: immaginate che spesso il porto era dentro ad un piccolo fiordo, e lo spazio era appena sufficiente a far ruotare la motonave su se stessa, e di notte e magari con il meltemi che soffiava anche a 20/30 nodi non era certo facile garantire l’ormeggio sicuro..…eppure non ho mai visto un incidente o una manovra errata. La motonave era sempre piena di turisti, la maggior parte giovani che andavano in vacanza, e negli anni 70 erano i figli dei fiori che poi avrebbero dormito in tenda sulla spiaggia:
La mia meta era sempre lontana, per cui partendo sempre nel primo pomeriggio dal Pireo si arrivava a destinazione il giorno dopo, e tutta la notte era un andirivieni di turisti che salivano e scendevano ogni ora in un porto…..a bordo l’atmosfera era allegra, i ragazzi cantavano e chiacchieravano allegramente e questo clima festaiolo mi contaminava, ancor prima di sbarcare, e quando finalmente arrivava anche il mio turno avevo l’impressione di aver conquistato la mia meta.
Poi ho iniziato a raggiungere la Grecia in barca, e a bordo l’atmosfera greca iniziava a Corfu, primo porto di atterraggio, normalmente a Guvia, con le prime Greeck salad, la Mussaka, il Geeck coffee e l’immancabile uzo, come aperitivo o digestivo, meglio se tutti e due…
Perché vi ho parlato della Grecia? Ho letto un articolo di un altro “ammalato” di Grecia, e non ho resistito a raccontarvi il mio pensiero al riguardo, perché è difficile dimenticare il blu di quel mare, il soffio del meltemi, il profumo dei cespugli di timo e origano, del sole ”SOLE”, il colore delle buganville, i balconi blu sulle pareti bianche delle case, le isole con la Kora, i mulini a vento, e la cordialità dei greci….forse sono da ricoverare anch’io con il “mal d’Egeo”.
Ecco il racconto:
Se dovessi spiegare a mio figlio cos’è la Grecia, cos’è stata, cosa e quanto abbia rappresentato nella mia vita, comincerei dal viaggio.
Da quelle sedici ore di passaggio ponte che da Brindisi mi facevano sbarcare a Patrasso.
L’aereo era fuori portata, roba da ricchi. E poi, vuoi mettere il fascino del mare, là sotto.
Non un semplice viaggio in traghetto, quello.
Era già vacanza. I primi incontri, gli improbabili contatti sulle onde dello Ionio prima, dell’Egeo poi, vento forte, gli asciugamani come coperte.
E un sacco di gente attorno. Da tutte le parti del mondo. Lingue incomprensibili, lineamenti diversi.
Igoumenitsa metà strada, scendevano a centinaia, ne salivano altrettanti.
La terraferma come Colombo quando incrocia l’America. Era solo una tappa, Patrasso. Là bisognava salire sul primo pullman, altre cinque ore, stretto di Corinto, poi Pireo. Solo lì si decideva la destinazione.
Kos, Rodi, Mikonos, Santorini, Ios. Patmos. Meravigliosa, Patmos. Buona comunque la prima che partiva.
Altre dieci ore, come minimo. Due giorni e due notti per il paradiso.
Poi le lucine dell’isola, ferma e distaccata come un dipinto, un presepe fuori stagione allestito in mezzo al mare.
Cuore in gola e farfalle allo stomaco durante le operazioni di sbarco.
Devastati dal viaggio, si sceglieva tra le numerose e a buon mercato case dei pescatori. Duemila dracme, diecimila lire a notte, bagno e angolo cottura. Vista mare, per i più fortunati.
La colazione al primo bar all’angolo, caffè greco e croissant al burro.
La colonna sonora dei grilli ti accompagnava già dalle prime luci dell’alba, si spegneva al tramonto.
Ogni mattino una spiaggia diversa. Non prima però di aver preso a noleggio una di quelle vespe cinquanta. Non del tutto ortodosse ma assolutamente efficaci. Rumorosissime.
Il nostro mezzo di trasporto per i venti giorni di vacanza. Le lasciavamo al porto, prima di ripartire. Prima di fare il percorso inverso. Nessun documento da ritirare.
Anche questa era, la Grecia.
L’isola, come una grande famiglia.
Non te la potevi mica imbarcare, la vespetta.
Dopo un paio di giorni ci si conosceva tutti. La Chora, le spiagge, il sirtaki, le taverne, i bar notturni. Prima o poi ci si incontrava. O, al contrario, non ci si vedeva più.
Facile ipotizzare pure le partenze. Improvvise, a volte dolorose.
Ma gli arrivi, ancora più inaspettati, risolvevano tutto.
C’era una sorta di ricambio naturale, là sull’isola. Arrivi e partenze tutti i giorni. Temporanei i primi, definitive le altre.
Le spiagge, un vivacissimo affresco di un visionario artista figurativo, l’acqua del mare, cristallina, di rubinetto, quasi potabile. Due colori su tutti: bianco e azzurro. Come la bandiera.
E le chiesette. Costruite anche in zone impossibili, poco accessibili, isolate, a volte in bilico, straordinarie.
Tramonti difficili da spiegare. Le notti. Lunghe e movimentate, divertenti, chiassose. Scanzonate, improvvisate, incantate.
Chissà, sarà stata forse quella, la felicità. Così simili, così diverse, le innumerevoli isolette greche.
Dodecaneso, lontanissimo ma straordinario, affacciato alla Turchia, dove oriente e occidente si stringono la mano, meta dei nordici, svedesi e norvegesi su tutti.
Cicladi modaiole, messe là in mezzo, meravigliose ma care, casa degli italiani.
Ioniche a due passi, con la bellissima e movimentata Zante preferita dai britannici. Laganas una piccola Ibiza.
Kastellorizo, location di Mediterraneo, agognata ma mai raggiunta. Troppo lontana. Sono tante le immagini indelebili della “mia” Grecia. Visitata, girata, perlustrata, vissuta per diciassette anni di seguito.
La Chora di Patmos, i bar di Kos, le spiagge di Mykonos – superparadise su tutte – le cene a base di octopus a Santorini.
Singolare la vita del polpo greco. Prima steso come fosse biancheria, poi sul barbecue.
La baia di Lindos a Rodi, la tranquillità di Serifos.
La magia di Ios, mia preferita.
Ma anche il paesaggio di Paros, le chiesette di Naxos.
I fuochi sulla spiaggia a Paxos.
Aperitivi di ghiaccio e ouzo, boutary rose’ a tutta cena. Si finiva con la metaxa. L’agnello più buono del mondo, mai mangiato uno così.
E feta dappertutto, moussaka, saganaki, tzatziki.
Il tutto divorato sulla spiaggia, con le leggerissime onde del tramonto che ti bagnavano i piedi, ancora in costume da bagno, e la pelle di salsedine cotta da un sole decisamente generoso.
Ricordo ancora il posto, Honestoras si chiamava, località Lambi, Kos.
Efharisto’, Hellas.
Grazie di cuore. Per tutto quello che ci hai donato. Mai potrò dimenticare.
Ecco, più o meno è stata un po’ così, la Grecia, figlio mio.