Maggio – Antonio Coppi
Sto rivedendo la storia di alcuni personaggi che ho intervistato, e per qualcuno ho deciso di rivedere la loro storia. Uno di questi è Antonio Coppi, il Comandante per antonomasia, e nell’intervista che ne è uscita ci sono alcuni passaggi che meritano di essere condivisi fra amici velisti. Sono certo che vi piaceranno, e nel personaggio di questo mese riconoscerete un grande amico del mare.
Chi è oggi Antonio Coppi?
Mah, dentro mi sento ancora un ragazzino, curioso di tutto, ma poi devo fare i conti con il mio fisico che a ottantatre anni mi pone ogni giorno davanti a nuovi limiti. Forse potrei definirmi un vecchio sognatore, uno che nella vita ha cercato di realizzarsi in tanti modi diversi, come giornalista, come dirigente, come imprenditore e come giudice, ma che alla fine si sente veramente a suo agio solo in mezzo al mare. L’unica cosa che posso dire di me è che sono uno spirito libero e ne vado orgoglioso.
Da giovane come immaginavi sarebbe stata la tua vita?
Non ho mai avuto un vero progetto di vita. Perché? Non lo so: immaturità, idee sbagliate, ambiente familiare, mancanza di informazione. Quando ero alle scuole medie non esisteva ancora la televisione; la prima trasmissione RAI – in bianco e nero- mi pare che fosse del 1954, ma pochissime famiglie si potevano permettere di acquistare un apparecchio televisivo, allora costoso. Poi più avanti mio padre si rifiutò di comprarlo perché riteneva che per noi ragazzini fosse una distrazione che rubava tempo allo studio. Di conseguenza nella mia, come in tantissime famiglie di italiani, la prima televisione entrò verso la fine degli anni cinquanta. Risultato: l’informazione era confinata alla scuola, alle trasmissioni radio, ai quotidiani e alle chiacchiere in famiglia. Noi giovani nati prima della guerra conoscevano ben poco delle opportunità della vita, che con la ricostruzione e lo sviluppo industriale si stavano sviluppando velocemente in tutti i settori. A me piaceva scrivere e mi interessava l’archeologia. A Roma In quegli anni stavamo in viale Gottardo, e poco più in su abitava un vecchio giornalista parlamentare, Gaetano Natale, che era noto per aver diretto la “Tribuna”. Allora in piena adolescenza scrivevo poesie. Mi feci coraggio e gliele feci leggere. Lui mi fissò un appuntamento con Giuseppe Ungaretti, che abitava a Monteverde e le cui pubblicazioni erano la mia bibbia. Lo andai a trovare con un po’ di batticuore. Mi accolse piacevolmente, mi regalò la sua ultima raccolta edita e mi incoraggiò a proseguire, consigliandomi di leggere molto. L’anno dopo in prima liceo il mio compagno Gianni Melli – che poi divenne uno stimato giornalista – voleva fare il giornaletto della scuola. Andammo ad intervistare Pier Paolo Pasolini che aveva appena pubblicato “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana”. Una esperienza molto interessante. Allora sentivo se pure in modo quasi inconscio, che quella era la strada che volevo percorrere. Appena uscito dal liceo classico io scrissi il mio primo articolo – una intervista al Drake Enzo Ferrari – per una rivista romana che si chiamava “Smoking” che me lo pagò (!). In famiglia mi spingevano verso la carriera diplomatica e io non avevo le idee chiare. Perciò accettai di iscrivermi a legge alla Università della Sapienza, ma ero così poco convinto che trascuravo le lezioni del rettore Papi e andavo a sentire le lezioni di etruscologia del professor Pallottino. Scorrazzavo per la campagna da Cerveteri a Tarquinia, da Veio a Fiano Romano. frequentando i “tombaroli” locali per visitare le tombe etrusche. Una notte a Cascia S.Sivestro vissi un momento di vera emozione. Avevo convinto due tombaroli a portarmi con loro per aprire una nuova sepoltura a camera, che nei giorni precedenti avevano picchettato liberando il “dromos”. Aperta l’entrata della tomba, strisciammo nello spazio angusto a carponi, perché più di venti secoli di infiltrazioni nel tufo avevano creato uno spesso strato di depositi, che ne avevano ridotto considerevolmente l’altezza. Alla fiamma tremolante della candela (più efficace nelle tombe del raggio delle torce elettriche), comparve la sepoltura a tegole. In pochi minuti i due la rimossero, mettendo alla luce uno scheletro intatto, che presentava una bella fibula in bronzo appoggiata sulla gabbia toracica. Il capo allungò una mano per prenderla. In quel momento, probabilmente a causa del contatto con l’aria, i legamenti della mandibola cedettero e il teschio aprì la bocca. Il tombarolo fece uno scatto indietro, urtando il compagno che teneva la candela, che cadde a terra e si spense. Lanciarsi fuori dalla tomba fu questione di pochi secondi, dei veri Indiana Jones! Appena all’aria aperta scoppiammo a ridere e rientrammo…. ma con una certa cautela! A parte qualche piacevole avventura la mia carriera da aspirante tombarolo-archeologo non durò molto, anche se imparai sugli etruschi molte cose. Appena laureato feci un concorso al Ministero degli Esteri e vinsi una borsa di studio per un corso di specializzazione: “orientamento per la carriera diplomatica”: sei mesi presso la facoltà di Scienze Politiche all’università di Firenze. Diritto internazionale, Economia Politica etc. A parte il Diritto Internazionale che mi aveva sempre interessato, tutte le altre materie erano una rottura di scatole, specie quel mattone della Storia dei Trattati e politica internazionale. Al mio ritorno lezioni di inglese alla Berlitz school….non ne potevo più di studiare: ero giovane e mi interessavano più di tutto le ragazze e – da buon maranellese – i motori e la formula uno. Ero amico di Mauro Forghieri e quando potevo seguivo le corse anche dai box. Fatto sta che al concorso – milleottocento concorrenti – arrivai 46mo su 44 posti. Per ridarlo l’anno dopo bisognava ricominciare tutto daccapo, scritti compresi. Non ci pensai più. Accettai l’offerta di un amico industriale che avevo conosciuto a Cesenatico e che mi portò a lavorare ad Asti, dove la sua gentile e affettuosa famiglia mi accolse nella sua casa. In quelle sere di inverno si parlava molto di mare davanti ad un buon bicchiere di Barolo. Non riuscii a convertirlo alla vela, ma lo convinsi a finanziare l’acquisto della prima barca: il Bora junior, un motoscafo! Un grave incidente stradale dopo qualche mese pose però fine alla mia carriera alle Distillerie Kennedy, mentre la nostra amicizia durò ancora per qualche anno. Lasciai le nebbie e la neve di Asti per un lavoro nelle Relazioni Pubbliche della Alitalia a Roma.
Qualche bel ricordo di lavoro?
I ricordi più soddisfacenti della mia vita di lavoro? In Alitalia i viaggi gratis in giro per il mondo! Sicuramente in Cantiere, quando vedevo i miei collaboratori dare forma a quello che avevo ideato; come giornalista, quando vedevo andare in onda i servizi televisivi che avevo realizzato o quando su Italia Oggi per quattro anni avevo la mia pagina di tecnologia del mare e seguivo Gardini nella sua avventura di Coppa America; come giudice quando in poco tempo riuscivo a dare giustizia a chi ne aveva bisogno. Ma sono un velista nell’animo e niente mi appaga di più che lo sciabordio dell’acqua sullo scafo e una bella bolina di buon braccio su un mare appena increspato da quindici nodi di vento!
Com’è nata la passione per il mare?
Quello che chiamiamo comunemente destino è un insieme di circostanze che influenzano prima i nostri sogni e poi indirizzano le nostre scelte di vita. Che dietro quelle circostanze ci sia una assoluta casualità o un complesso disegno delle stelle (!) non lo posso sapere! Fatto sta che ero un” terrazzano” per sangue e per adozione: la casa di famiglia a Gorzano, a due chilometri da Maranello, mi metteva nel sangue la passione dei motori – che in effetti non mi ha mai abbandonato. Fu solo a dieci anni che vidi per la prima volta il mare, quando un settembre del dopoguerra la mia famiglia passò la prima vacanza nella ricostruita casa di Marina di Massa, edificata alla fine dell’800 quasi sulla spiaggia dal mio bisnonno (piemontese), magistrato del regno trasferito per “Regio Decreto” al Tribunale di Massa.
Guardando quella distesa che si perdeva all’orizzonte, con le sagome della Palmaria e del Tino a NW e la vaga silhouette di Livorno e della Gorgona a SSW rimasi incantato. Credo che il desiderio di perdermi in quell’infinito azzurro, farmi trasportare dal vento oltre l’orizzonte per scoprire dove finisce l’acqua ed inizia il cielo, sia nata da quella prima sensazione. Mio nonno materno, ingegnere aeronautico, che lavorava a Torino alla Fiat Grandi Motori, passava a Marina le sue ferie. Era appassionato di vela, costruiva per hobby grandi modelli di barche, realizzando le vele con la seta di un vecchio paracadute, e mi portava a farli navigare sul fiume Frigido. Lui da una parte e io dall’altra regolavamo le vele e ci inviavamo i modellini, tenendo conto del vento e della corrente.
E la passione per le barche?
Come ti ho detto le radici sono state piantate da mio nonno, prima con i modellini di barche, poi con un vecchio “beccaccino”, sul quale mi portava qualche volta. Era un uomo di poche parole, quando sbagliavo mi dava un leggero nocchino sulla testa e aspettava che capissi da solo. Qualche volta d’estate andavo come prodiere con i ragazzi del bagno Boni sulle derive, le S e le U; poi verso i sedici anni affittavo un vecchio lightning per andare a punta Bianca o a Fiascherino o a Lerici o più spesso per risalire il Magra. Così la passione per la vela è cresciuta in modo del tutto naturale. Quattro anni nel cantiere navale “LA BUSSOLA” a Fiumicino con l’amico Dino Reggiani per restaurare nel tempo libero un vecchio 14 metri di legno bialbero armato a goletta, l’Arturo – costruito su espressa volontà del duce nel 1939 dalla Lega Navale nei cantieri di Fiumicino – mi hanno insegnato molte cose. Quando ormai mancava poco alla fine dei lavori dello scafo con il mio amico Carlo Giordano, allora dirigente della Vasca Navale di Roma, modificammo il piano velico. Una tavoletta di legno in scala, armata con alberi e vele in carta extrastrong e scotte in filo da rammendo assicurate con lo scotch; un binario su cui scorreva un cuscinetto a sfere dotato di manico e di fermo, ecco l’attrezzatura con cui studiammo il nuovo centro velico. Lui guidava l’auto a passo d’uomo per le vie dell’EUR ed io con questo accrocco fuori dal finestrino, regolavo il manico fino a trovare il punto in cui le vele tenevano il modello perpendicolare all’auto, ritagliando le vele di conseguenza. A dispetto di questo metodo empirico l’Arturo, da noi armato a schooner, è stato un ottimo veliero, e con lui ho navigato in lungo e in largo il Tirreno fino alle Egadi, partendo da Fiumicino il venerdì sera e lasciandolo di volta in volta in porti successivi, da dove con autobus e treni rientravo a Roma per essere il lunedì mattina alle otto in Alitalia, presso cui lavoravo.
Come mai hai deciso di lasciare la carriera dirigenziale? Forse per dare spazio alla tua creatività? e come conciliare la gestione di un cantiere con la voglia di navigare?
Dopo l’Alitalia, dove ho imparato a lavorare, la carriera da dirigente in altre due aziende non mi soddisfaceva né mi lasciava spazio per la famiglia e tantomeno per la vela. Così nel 1980 ho aperto un Cantiere Navale a Viareggio costruendo, secondo la migliore tradizione artigianale viareggina, barche a vela di 13 metri (CT43 Hunraken e CT43 Starlight – basate sul progetto di Sparkman & Stephens dell’Alpa 12,70), esposte a sette saloni nautici di Genova. In quel periodo mi sono dedicato alle regate, aggiudicandomi diverse coppe con il mio Impala 36. Stanco di regate, dopo qualche anno lo ho modificato per la crociera, e con “Il Malandrino III” ho navigato in lungo e in largo il Mediterraneo occidentale dalle coste italiane a quelle francesi e spagnole fino a Gibilterra, Baleari e Cabreras comprese; le coste nordafricane fino a Zarzis, al confine tra Tunisia e Libia, isole Kerkennah e dune di mare comprese. E naturalmente Pantelleria, Lampedusa, le Egadi e le Eolie, con tante avventure, pescando alla traina e dormendo nelle baie sull’ancora, quasi sempre alla ruota, ma a volte legato a scogli o ad alberi, e persino ad un vecchio palo in ferro arrugginito, che di notte mi ha abbandonato!!!
Certo che eri irrequieto: prima dirigente d’azienda, poi apri un cantiere per costruire barche, poi regatante e velista in giro per il Mediterraneo, giornalista da sempre…
Come giornalista ho l’orgoglio di avere ideato per Andrea Barbato – allora direttore del TG2 – il primo programma televisivo completo sulla vela, andato in onda nel 1978 per dieci puntate prima del telegiornale- uno dei primissimi programmi a colori – con un indice di ascolto per l’epoca elevatissimo: 1.800.000 ascoltatori. Mentre giravo il programma, con operatore e tecnico del suono appresso, ho conosciuto e fatto amicizia con tanti bravi velisti, da Cino Ricci, a Mauro Pellasquier, dai Chieffi a Paul Cayard; dai grandi ammiragli velisti della nostra Marina Militare fino ai più noti architetti e progettisti, da German Frers a Carlo Alberto Sforzi. Sempre come giornalista – allora lavoravo a Italia Oggi – ho seguito tutta l’avventura del Moro di Raul Gardini in Coppa America, dalla ideazione al varo a Venezia, dalla vittoria a San Diego sui Challengers alla bruciante inevitabile sconfitta sempre in California contro il Defender, fino alla tragica morte del “Contadino” a Milano.
Vita da giornalista
Intervista all’astronauta Parmitano
Parliamo un po’ del tuo rapporto con il mare: Il mare per andare in barca o la barca per andar per mare?
Il mare, sempre indissolubilmente legato alla vela. La vela è un mezzo meraviglioso per poterlo vivere appieno, in simbiosi con l’acqua, il vento, l’orizzonte. Uno spazio in cui perdersi, una dimensione dove esisti e sei vivo.
Che rapporto hai con la navigazione in solitario?
La solitudine mi piace molto, e la desidero… quando sono in compagnia! Poche volte ho navigato da solo, quando dovevo trasferire una delle mie barche, ma per me la vela è un hobby da equipe, da condividere, magari in silenzio. Nel silenzio, con il solo rumore dell’acqua sulle fiancate e del vento tra le sartie e sulle vele si vivono i momenti più belli, nei quali ti senti solo con te stesso e nello stesso tempo in assoluta comunione con gli amici che sono in barca con te. Quel silenzio che tu ami al punto di chiamare la tua barca “Sound of Silence”: il che dice tutto!
Cosa pensi delle regate intorno al mondo in solitario?
Bellissime, fatte per uomini molto più coraggiosi di me! Persone speciali che hanno doti di autocontrollo e risorse psicologiche fuori dall’ordinario.
Chi hai avuto come riferimento fra i grandi navigatori? Loro hanno fatto il giro del mondo, e per te qual è stata la più grande impresa?
Bernard Moitessier, che mi ha fatto sognare, che poi ho avuto il piacere di conoscere e di incontrare durante l’ultima parte della sua vita. Aveva praticamente vinto la Golden Globe Race e le cinquemila sterline del Sunday Times (nel 1968, più di 100.000 euro di oggi) ma invece di dirigersi sull’Inghilterra proseguì la navigazione in solitario compiendo un altro mezzo giro del mondo senza scalo.
Non hai mai pensato ad un tuo giro del mondo?
Non sono un navigatore oceanico come molti amici, come Miguel Rodriguez Larrosa, che con Oceano VI e la sua dolcissima Dora ha fatto il giro del mondo e vive tuttora in barca. Come altri amici e tu stesso, che avete fatto traversate oceaniche e avete solcato i mari tropicali. Negli anni in cui costruivo barche nel mio “Cantieri del Trasimeno” a Viareggio le facevo pensando ad una traversata Atlantica e ai mari del Sud. Ma questo desiderio è svanito con gli anni e le vicende della vita. Ho però veleggiato molto nel nostro Mediterraneo. Nel 2001 ho portato il mio “Malandrino Fabinou” da Viareggio in Turchia, passando da Creta e da allora navigo in Egeo, Mar di Levante, Mar di Marmara e Mar Nero. Per raccontare tutto quello che mi è capitato in questi cinquanta anni di vela, cominciando da una infinità di errori, toccate sugli scogli, incagli, recuperi di uomo a mare, disalberamenti e cime nell’elica, dovrei scrivere un libro… forse ….a puntate per non annoiare!
Il ricordo più bello da quando navighi?
Penando all’infinito
Il FabinouSono un romantico e sono legato a vecchi ricordi.
Stavo navigando nel mese di maggio insieme a due carissimi amici con l’Arturo, la goletta che avevo restaurato in quattro anni nel cantiere “La Bussola” a Fiumicino.
Al largo di Ladispoli vediamo la sagoma dell’Amerigo Vespucci, maestosamente invelato, che naviga verso Civitavecchia. Cazziamo e stringiamo per metterci sulla sua rotta. Quando ci passa a una sessantina di metri dico a Massimo di issare sulla crocetta di sinistra la bandiera italiana. Un minuto dopo l’equipaggio dell’Amerigo si schiera lungo la murata e fa il saluto alla voce. Una emozione incredibile, che non posso dimenticare e che ancora mi dà i brividi. Poi sento suonare il baracchino sul 16. “Qui nave Vespucci, sono il marconista. Il comandante si congratula con voi, siete dei marinai”
Io sono confuso, rispondo: “Ringrazi il comandante, siete bellissimi”
“Stasera a Civitavecchia c’è festa a bordo e siete invitati”
“Ringrazi il comandante, ma non abbiamo vestiti adatti, siamo in jeans”
Dopo un minuto di pausa sento di nuovo la voce del marconista:
“Il comandante dice che i bravi marinai sono sempre i benvenuti con qualsiasi abito”
Quella sera a Civitavecchia l’Amerigo era ormeggiato vicino alla nave scuola argentina ”Libertad”. Appena a bordo ci sentimmo subito assolutamente fuori luogo. Cadetti in uniforme delle due navi scuola e la crema del gentil sesso di Civitavecchia e dintorni in vestiti di gala. Oggi rimpiango molto di non aver neppure salutato il comandante, ma imbarazzatissimi gli lasciammo i saluti e scappammo!!! Finimmo tristemente la serata in una trattoria subito fuori dal porto. La mattina seguente facemmo amicizia con alcuni ragazzi della Libertad che ci regalarono un guidone della nave, che conservo gelosamente tra i miei ricordi di quegli anni, popolati ancora di sogni e di ideali.
Il più brutto?
Quando per un pelo non persi un compagno in mare.
In quegli anni – io ero poco più che trentenne – mi piaceva il rischio, affrontare il mare con onde”vere” in tutte le stagioni, ma particolarmente in autunno e inverno.
Lavoravo alla Alitalia e alle cinque di sera del venerdì, armato di panini mi imbarcavo insieme ad uno o due amici sull’Arturo, ormeggiato in darsena.
Prima armavamo il gommone caricando il serbatoio della miscela e le pagaie, montando sullo specchio di poppa il fuoribordo, con il piede alzato sul cavalletto per non lasciarlo in acqua. Assicuravamo il dinghy alla barca con una cima di una decina di metri, poi uscivamo dal canale di Fiumicino, pigliando per Sud o per Nord a seconda del vento e del mare.
Nel mese di novembre alle quattro e mezza del pomeriggio è già buio pesto, ma la cosa in quegli anni non ci preoccupava ed il risultato era che in quelle navigazioni notturne ne succedevano sempre di tutti i colori.
Quel novembre Ennio – allora stewart dell’Alitalia – ed io uscimmo da Fiumicino contro il parere dei marinai di banchina: da tre giorni c’era vento da WSW con il relativo mare formato, e in più faceva freddo. Eravamo solo in due e decidemmo di mettere la prua sul Giglio. Appena superata la barra dell’imboccatura, che faceva impennare l’Arturo spinto dal piccolo motore Nanni Diesel a meno di due nodi, issammo le vele: randa Marconi sul maestro, randa aurica e uccellina sul trinchetto e genoa sullo strallo di prua. Ben invelata e con mura quasi al traverso l’Arturo viaggiava a 7 nodi su un bel mare formato. Nel buio si intravedevano a dritta le luci della costa, che lentamente si allontanavano.
Il dinghy ci seguiva zigzagando nella scia di spuma che ci lasciavamo a poppa. Contro ogni previsione il vento stava calando e dopo circa quattro ore di navigazione la barca viaggiava a cinque nodi, ma il mare rimaneva molto mosso. Un’onda più formata delle altre investì il gommone e fece uscire dal suo supporto il motore. Con il gambo e l’elica in acqua il fuoribordo mi preoccupava, perciò chiesi a Ennio se se la sentiva di scendere sul dinghy per alzare di nuovo il motore sul suo supporto.
La poppa dell’Arturo era alta e non aveva plancetta che potesse aiutare la discesa verso l’acqua, ma era sufficiente avvicinare la prua del gommone per poter appoggiarvi il piede e salire facilmente…. con il mare calmo!
Con il mare mosso e di notte la cosa si presentava più complicata. Con una mano Ennio recuperò i dieci metri della traina e avvicinò il gommone alla poppa reggendolo con una mano, poi si lanciò mollando contemporaneamente la cima. Non fece bene i conti con l’onda che sopraggiungeva. Appoggiò male il piede, il gommone si capovolse e lui cadde in mare.
La mia inesperienza stava per decidere sulla vita del mio compagno: non ebbi la prontezza di spirito di lanciargli il salvagente anulare o lasciare la cima del dinghy in modo che lui si potesse avere un appoggio. La barca, tutta invelata sui suoi due alberi, senza un uomo alle manovre non mi consentiva di virare o di strambare e tanto meno di arrestarla con la classica manovra di “uomo a mare” che ti fanno eseguire per la patente. Diedi un’occhiata alla bussola imprimendomi la rotta nella memoria, accesi il motore metà giri e misi la prua al vento. Poi mollai la ruota del timone e mi lanciai ad ammainare uccellina e randa aurica, questa particolarmente impegnativa perché doveva essere calata con tutto il suo pesante picco, tenuto a riva da due drizze, con la sola riduzione di un bozzello.
Nei primi anni settanta non esistevano autopiloti per il diporto, per lo meno per quello a la mia portata. La barca, lasciata a se stessa, spinta dal vento, dal mare e dal motore in pochi minuti si era rimessa su una rotta molto vicina a quella tenuta in precedenza: la randa maestra e il genoa si erano gonfiati di vento ostacolando la discesa del picco. Non avevo allascato abbastanza le scotte, un errore che mi fece perdere tempo prezioso. Appena finito con le vele centrali saltai in pozzetto a mollare la scotta del genoa e rimisi la barca controvento. Poi corsi a prua a mollare la vela montata sui garrocci (meno male, se ci fosse stato un odierno avvolgifiocco sarei stato veramente nei guai!), che si raccolse di colpo sul ponte contro la battagliola di dritta. Dovetti imbrogliarlo rapidamente, per evitare che la vela si gonfiasse con il vento rendendomi difficili le manovre o peggio cadendo in mare e creando altri problemi. Prima di aver compiuto la manovra ed aver imbrogliato jn modo approssimativo queste tre vele era passato circa un quarto d’ora. Finalmente con la sola randa maestra potei virare e mettere la prua per 180 gradi rispetto alla rotta che avevo rilevata. Dopo un tempo grosso modo corrispondente mollai completamente la scotta di randa, spensi il motore in attesa di sentire un richiamo.
Silenzio assoluto nel buio più profondo.
L’Arturo si muoveva lentamente sulle onde. Misi a segno la randa e ripresi a navigare lentamente in un ampio circolo, alternando virate e strambate e spazzando la superficie dell’acqua con il raggio della torcia a pile. Nulla.
Fu solo allora che mi prese il panico. Prima una morsa dolorosa allo stomaco, poi un turbinio nel cervello.
Cominciai a urlare il suo nome nella notte, ma mi rispondeva solo il rumore delle onde sullo scafo e il vento tra le sartie.
Il buio pareva averlo inghiottito.
Pensieri paurosi mi affollavano la mente: l’impaccio della cerata e degli stivali, l’acqua gelida, che intorpidisce i movimenti, il tempo già passato dal momento della sua caduta, la rotta e la posizione che evidentemente non erano quelle giuste….
Ordinai a me stesso di calmarmi per evitare che il terrore mi impedisse di ragionare. La radio di bordo era il baracchino, che aveva una portata limitatissima, quindi poca o nessuna speranza che qualcuno potesse captare il segnale sul 16. Non mi venne in mente che a bordo c’erano i razzi di segnalazione.
Pensai che il mare e il vento avevano sicuramente fatto scarrocciare la barca verso la costa. Perciò accesi di nuovo il motore, e misi la prua verso il largo, controvento, cazzando la randa che sbatteva e faceva oscillare il boma da un lato all’altro della barca.
Per una decina di minuti proseguii verso fuori. All’improvviso sentii un forte colpo provenire da prua. Cosa diavolo era? Mi sporsi dalla murata e vidi il serbatoio arancione della miscela del fuoribordo (allora erano in metallo), che dopo aver urtato il mascone mi stava passando al traverso. Mi si allargò il cuore. Spensi immediatamente il motore: se c’era il serbatoio doveva esserci anche Ennio. Infatti dopo qualche secondo lo sentii chiamare. Diressi il raggio della torcia e lo vidi poco più in là, la macchia scura della testa e gli stivali in mano che salivano e scendevano tra un’onda e l’altra. Gli andai vicino e lui si afferrò al gommone, che io tirai sotto la poppa, assicurando la cima di traina sulla bitta di sinistra. Con i nostri sforzi congiunti riuscimmo a ribaltarlo rimettendolo con la chiglia in acqua. Poi tirai su Ennio quasi di peso, mentre lui si aggrappava allo strallo. Quando finalmente lo rividi a bordo era molto pallido, sfinito e tremava dal freddo.
“Hai avuto paura?”
“Solo quando vedevo la barca allontanarsi; dopo quando la vedevo girare per cercarmi mi sono calmato….ma faceva freddo.”
Lasciammo la barca in balia di se stessa e scendemmo. All’interno la temperatura era leggermente migliore. Lui si spogliò, si asciugò con il mio accappatoio e gli prestai un maglione asciutto. Seduti in dinette ci scolammo in silenzio mezza bottiglia di whiskey. Beata giovinezza! Dopo poco più di un quarto d’ora uscimmo in pozzetto. Randa e motore mettemmo la prua su Civitavecchia, dove ormeggiammo all’inglese e ci addormentammo di colpo, vestiti come eravamo. Il giorno dopo pigliammo un treno e rientrammo a Roma.
Ancora oggi mi domando quanta fortuna abbiamo avuto quella notte. Trovare un uomo in mare, di notte nel buio totale e senza i riferimenti che ci sono oggi con i gps e i plotter, era come trovare il famoso ago nel pagliaio….
”Lassù qualcuno ci ama?” Probabilmente si.
Una avventura come questa avrebbe dovuto cementare una lunga amicizia.
Non fu però così.
Fortuna e sfortuna… Quando la settimana dopo andai a riprendere l’Arturo con un giovane che non conoscevo, amico di un amico, il mare era calmo e c’era poco vento sempre da ovest. Poco dopo essere usciti dal porto si ruppe la cinghia di trasmissione del motore. Mentre ero di sotto a cercare di rimediare al problema con una cinghia di fortuna lo sprovveduto compagno di viaggio, malgrado le mie precise istruzioni e la grande boa che delimitava il bassofondo ben visibile sulla dritta, portò l’Arturo sulle secche di capo Linaro! e non sulle sue prime pendici, ma proprio nella “fontana”, il piccolo bacino centrale della grande piattaforma di roccia. Ma questa è un’altra dolorosa storia.
Andatura di Bolina
Il mare dall’alto del Fabinou
Quante altre volte hai avuto paura? raccontami un episodio in cui ti sei sentito in balia del mare
Paura? Spessissimo! La paura è una componente intrinseca, sempre latente, dell’andare per mare. Ricordo una frase dei Malavoglia di Verga: “la paura in mare pesa come il piombo”. Poi però, quando gli eventi peggiori si verificano la paura lascia il posto alle cose che devi fare per uscirne al meglio, e non ci pensi più. Sugli scogli di Capo Linaro, per esempio quando ad ogni piccola onda la chiglia sbatteva contro il fondo della” fontana”, con un rumore sordo che ancora mi rimbomba nelle orecchie, pensavo solo a come uscirne. Paura per la barca, certo, e magari anche per noi.
Ma rapidamente riuscii a decidere: l’ancora portata dal gommone a una ventina di metri a prua, barca invelata traversata al vento per tenerla inclinata e ridurre di conseguenza il pescaggio, motore e verricello elettrico… e come spesso mi capita nelle difficoltà, tanta fortuna.
A Fiumicino, messa subito la barca a terra, della chiglia era rimasta solo la fascia di ferro che la contornava, completamente ammaccata e ritorta; tutto il fasciame in legno fino al torello era sparito, sbriciolato dai colpi di maglio delle onde sulla secca.
La decisione più saggia che hai preso e quella che rimpiangi di non aver preso
La più saggia, ma è anche quella che rimpiango di più: quella di vendere il cantiere navale! Quella che vorrei aver preso? Mollare tutto e partire per i mari caldi!!
In tutti questi anni ha dato più il mare a te o tu a lui?
Io non ho dato niente al mare, a parte qualche oggetto caduto fuoribordo! Sto scherzando. Invece il mare mi ha dato tantissimo.
I luoghi che si raggiungono viaggiando in barca hanno un sapore speciale, ma con il tempo cambiano, perchè noi stessi cambiamo: quali avresti voglia di rivedere oggi?
Rivederli come erano cinquant’anni fa? Tutti. Come sono diventati oggi? … Ho paura di vederli cambiati, deturpati dalla edilizia inconsulta, che modifica le coste e i rilievi spogliandoli del verde e alla fine toglie il piacere della pace e della solitudine nelle baie.
Il mare Egeo, la culla delle civiltà: forse per questo da molti anni navighi sempre fra la Grecia e la Turchia? E l’isola che preferisci?
Le isole che amo di più sono sicuramente Panaghia nelle Sporadi, l’isola di Kios e quella di Amorgos tra quelle Greche. Ma ben poco rimane della antica civiltà che conquistò anche i romani. Le poche isole rimaste alla Turchia dopo il trattato di Losanna, si contano sulle dita di una mano. Escludendo Cipro che è per metà Turca e per metà greca mi piace l’isola di Bozceada con il suo bel forte, che domina lo specchio di mare dove si affollano le navi in attesa di passare i Dardanelli. Anche Marmara nel mare omonimo ha un suo fascino, per le cave di marmo da cui i Romani trassero il materiale per le moltissime città che costruirono in Turchia nei primi tre secoli d.C.
Raccontami delle tue barche, quella che ti ha dato più soddisfazione. Esiste forse una barca ideale?
La barca ideale dipende certamente da quello che hai intenzione di fare. Per Moitessier la barca ideale era un sedici metri di acciaio e di acciaio era anche quella che Miguel scelse per fare il suo lungo pellegrinaggio intorno al mondo. Per me la barca deve essere solida e performante per godere del mare e della velocità a vela. Gli spazi interni devono essere ampi e luminosi per consentire una comoda permanenza senza pestarsi i piedi e una vita a bordo, nelle baie e nei porti, il più piacevole e indipendente possibile. E fondamentale è l’altezza in cabina, per evitare di sbattere continuamente la testa e…diventare gobbi!
Questo concetto degli interni è quello scelto da Stark ed è diventato un modello per tutta la produzione degli ultimi dieci anni.
Tu che hai tenuto un cantiere e hai costruito belle barche, cosa pensi delle linee di una volta, e di quelle attuali?
Come tutto anche la nautica negli anni cambia. Tecnologie costruttive, impiantistica, elettronica, sistemi di navigazione. Basti pensare che con la mia prima barca il sistema di controllo della rotta si basava solo sulle carte nautiche, bussola, solcometro e al massimo il radiogoniometro, che leggeva i segnali dei radiofari. Poi il sestante e le effemeridi per i pochi che li sapevano usare nelle navigazioni di altura. Il sistema LORAN (LCD) inventato durante l’ultima guerra e i segnali Consolan attivi nel Mediterraneo dal 1962 per la navigazione civile e commerciale, divennero disponibili per la piccola e media nautica di diporto alla fine degli anni 80. Io comprai questo strumento con la sua lunghissima antenna in America nel 1992. Qualche anno dopo arrivò il Gps e infine il Plotter con la cartografia digitale. Le vele passarono da cotone a dacron, poi a kevlar, poi in fibra di carbonio. Le carene di una volta strette e “stellate” erano adatte a passare sull’onda morbidamente, senza sbattere come quelle dei vecchi Baltic (le migliori che ho provato) e quelle delle barche di Sparkman & Stephens. Da quelle vecchie e solide forme si è passato gradualmente a carene più larghe e più arrotondate, più performanti al traverso e alle andature portanti ma meno adatte ad affrontare mari formati di prua, perché subiscono bruschi arresti sull’onda. Con il progetto del “Surprise” di Ambrogio Fogar Douglas Peterson trovò negli anni ottanta un compromesso felice, sul quale poi Puccinelli costruì il famoso ”Impala 36 “ che all’epoca divenne il dominatore delle regate dei terza classe. Per arrivare infine a tre anni fa con le ultime Coppa America, che viaggiano fuori dall’acqua veloci come motoscafi. Io sono amante delle linee non esageratamente piatte, che consentano una navigazione comoda anche in bolina con mare formato, ampi spazi interni per consentire di vivere comodamente nelle baie… e -componente essenziale- amici simpatici, con i quali condividere il piacere di stare in mare.
Negli ultimi anni dove navighi?
Ogni anno passo alcuni mesi in Egeo, conosco un poco di turco e mi faccio capire con il mio “ turkenglish”. Nel libro “Nel Regno del Meltemi” ho raccontato delle sensazioni provate nel mio lungo vagabondare dal Mar Nero al Mar di Marmara, dall’Egeo al Mar di Levante: luoghi, personaggi, folclore, cucina, pensieri, tutto documentato dalle fotografie più belle tra le moltissime che ho scattato nei miei ventitré anni nel Mediterraneo orientale.
Dimmi in sintesi la tua filosofia di vita
Vivere giorno per giorno per quanto posso la mia vita, immaginando cose che qualche volta realizzo, ma spesso rimangono nei sogni……e cercando di passare il più tempo possibile a vela.