giovedì, Dicembre 12, 2024

Dicembre – Luciano Làdavas

Desideravo incontrare  Luciano Làdavas, e quando a maggio mi ha invitato ad andare a trovarlo in Valsesia, dove abita, non ho esitato ad accettare, perchè incontrare un navigatore che ha conosciuto e navigato con personaggi come Moitessier, Tabarly, Falck è oggi un’occasione più unica che rara. Il suo libro “L’esilio dei sogni”, che avevo già letto, mi aveva entusiasmato, così mi ero preparato una serie di domande per conoscere la sua vita, farmi raccontare qualcosa di lui che potesse animare il pozzetto di Rotte di tutto il mondo… Soprattutto, mi sarebbe piaciuto “entrare” nel personaggio.

L’indirizzo che mi aveva dato mi ha portato ad un paesino di 350 abitanti a 500 metri di altezza, a 40 chilometri dal Monte Rosa; mi verrebbe da dire “perso in mezzo alle montagne”, ma dopo il breve soggiorno (sono stato suo ospite) e le lunghe chiacchierate fatte insieme, ho capito che quella è la sua “isola”.

Dalla scrivania del suo studio una porta finestra si affaccia a Sud e lo sguardo può vagare lungo la linea dei monti, tant’è che mi è venuto spontaneo un collegamento a Leopardi:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ho conosciuto Leò, la sua compagna e ottima cuoca. Mi hanno fatto sentire molto vicino a loro, e mi hanno trasmesso quel senso di pace e tranquillità che si può trovare, oltre che fra le montagne, solo in mezzo al mare. Scendendo dalla corte verso il suo studio, Luciano mi ha indicato l’ulivo che ha piantato anni fa in mezzo al giardino. L’ingresso del giardino, guarda caso, fa pensare a un porto in miniatura con diga foranea. (Un particolare che si può notare nell’ultima foto.)

Infine prima di partire mi ha stampato alcuni suoi appunti che riguardano Bernard Moitessier. Li ritengo molto interessanti e spero che diano a questa chiacchierata un sapore unico.

Da chi hai preso l’arte e il piacere di scrivere?

Leggendo… leggendo i grandi i classici della letteratura, ma anche i poeti e i filosofi. Prima sono diventato un buon lettore, poi ho cominciato a scrivere. Ho sempre preso appunti, ho sempre avuto un quaderno accanto al letto, o sotto il cuscino nella mia cuccetta in barca, su cui scrivere quello che mi passava per la testa, per appunto… gli appunti… Poi, in tarda età, sono arrivato a pubblicare. Così posso dire d’essere un “giovane autore”, perché L’esilio dei sogni è uscito nel 2007, poi è venuto il secondo romanzo e adesso ne sto scrivendo un terzo, con l’assillo quotidiano di terminarlo prima che… diventi opera postuma.

Quindi è un piacere

Direi di sì… ma non sempre. È soprattutto un’esigenza, a momenti confesso che faccio un salto sulla poltroncina e mi dico: eureka, ho trovato!….Poi mezz’ora dopo magari mi prende lo sconforto. Una cosa inevitabile, perchè c’è sempre una caduta.

Anche perchè non deve essere facile: un conto è raccontare le esperienze della propria vita, romanzare le proprie esperienze, dove il ricordo è parte attiva, e un conto è scrivere, creare un romanzo.

Non è che esista una differenza così netta. Certo ci sono i vari generi creati per esigenze commerciali… ma da tempo penso che i romanzi più autobiografici siano proprio quelli di fantascienza: ti pare di inventare chissà che cosa, ma poi sono delle proiezioni di te stesso, delle tue ossessioni, e anche i personaggi sono quelli che hai incontrato o con cui hai vissuto, ovviamente rappresentati in modo del tutto diverso. Però senza un substrato autobiografico credo che non si possa scrivere nulla… Neanche il grande Kafka, quando si è svegliato come uno scarafaggio, un insetto: ha scritto qualcosa di vissuto nel proprio intimo… di autobiografico insomma.

Quante vite ha vissuto Luciano Làdavas

Ma, io credo di portare avanti un’unica vita, nel senso che già quando ero studente universitario ero proiettato fuori dai margini sia della protesta del 68/69, non che fossi estraneo, perchè partecipavo con la mia adesione, intellettualmente ero d’accordissimo, però ero già ai margini pensando di partire.

La famiglia ha influenzato le tue scelte di vita, oppure esse sono frutto di una reazione ad una vita di routine?

No, la mia famiglia, non mi ha mai imposto nulla. Mio padre ha capito e ha accettato la mia scelta di partire in barca, alla prima occasione che mi è stata offerta, in un certo senso mi approvava perché era quel tipo di vita che avrebbe voluto fare lui.

Era empatico nei miei confronti; mia madre no, l’ha vissuta un po’ come un tradimento di quello che si aspettava da me, ma poi ha capito anche lei.

Quindi no, non sono stato influenzato. Quanto poi alla ribellione, se c’è stato un rifiuto da parte mia è stato nei confronti della grande città, di quella Milano dove sono nato e ho vissuto fino alla fine dell’università… quindi un bisogno che ho cercato di rendere e scrivere nel primo libro, quando dico che mi sentivo assediato da milioni di persone attorno a me…

La notte soprattutto: ho avuto periodi da giovane a Milano in cui soffrivo d’insonnia: in piena notte, soprattutto d’estate con l’afa della città, mi assalivano pensieri del tipo:

<<……ma cosa sta succedendo in questo momento nella casa di fronte, al quarto piano? quali tragedie, delitti, quali violenze?……>>

Intendo questo quando parlo di “assedio”…  immaginato… ma non ci vuole poi tanta immaginazione…basta leggere i giornali al mattino, quando scendi in strada, e vedi cosa è successo attorno a te… 

Quindi la scelta di andare per mare è stata una scelta di fuga dalla città

Si, da un habitat nel quale non mi riconoscevo, che non era il mio, e non poteva diventarlo.

Il primo imbarco sulla goletta rossa, aspettative e sensazioni

Quella è stata un’occasione bellissima che mi è stata offerta da francesi. Facevo regate in Mediterraneo con barche già affermate che nell’equipaggio avevano qualche francese.

Io ho legato subito, mi sono sentito particolarmente in sintonia con i miei compagni

francesi, che poi mi hanno aperto un canale privilegiato per arrivare a regatare su barche sempre più interessanti, fino addirittura a incontrare Eric Tabarly, che mi propose di imbarcarmi sul suo Pen Duick III… È stata una rapida ascesa. 

Avendo conosciuto Tabarly, e dopo la traduzione del suo libro, cosa mi puoi raccontare, qual era il suo fascino, aveva un punto debole?

Il suo fascino: è particolarmente difficile parlare di Eric. Io stesso mi son fatto la domanda non tanto tempo fa …”ma l’ho poi capito veramente? Dopo che son stato, che ho navigato con lui?”       E la risposta è stata: no. Quando era il momento di farlo non sono riuscito a capirlo veramente; c’era una distanza psicologica fra me e lui, che creavo in gran parte io stesso.

Era empatico?

Allora: dovevi osservarlo e seguire quello che faceva lui in barca, parlo in navigazione… Non ti diceva mai: «fai questo», «fate quello» ………. Non dava comandi… o direttive.

C’era da issare lo spinnaker e lui aveva già la drizza in mano, pronto a issarlo. Poi se volevi veramente seguirlo, se volevi davvero imparare e diventare qualche cosa di più di quello che eri in quel momento, andavi subito a fare la manovra insieme a lui, seguivi il suo esempio… ma non l’ho mai sentito dire: «Questa manovra si fa così».

No, stava a te osservarlo e soprattutto capire. In questo non creava certo una grande empatia con le persone, era un navigatore solitario, sempre e comunque… poteva avere a bordo 14 persone di equipaggio, ma lui rimaneva un navigatore solitario.

L’imbarco sul Pen Duick III, quali sensazioni ti sono rimaste di quella barca e di quegli anni

Della barca posso dire che è stata forse la più dura che io abbia conosciuto, più dura e anche più nemica in un certo senso: bastava un attimo di distrazione e potevi farti male seriamente. È l’unica barca sulla quale mi sono ferito a una gamba. Aveva delle volanti con il sistema Kandar, sai quella leva che dovevi mettere in forza e poi tac!, la blocchi. Ero praticamente sopra a questa leva, stavo facendo una manovra, e in un colpo di prua la leva è schizzata su per conto suo, e mi ha colpito alla gamba.

 Un incidente che non dimentico perchè, a parte il fatto che mi è rimasta la cicatrice, non mi era successo prima, e non mi è più successo poi, di ferirmi a bordo di una barca.

Barca dura in questo senso. Tra l’altro picchiava parecchio sulle onde, anche quelle più piccole, per cui quando viaggiava a 8-9 nodi, sotto coperta c’era un gran frastuono… uno sbattimento… però dava grandi emozioni e soddisfazioni.

Il Pen Duick III è anche la barca con la quale ho disalberato in mezzo al Pacifico. Eric quella volta non era a bordo, me l’aveva affidata, per trasferirla da Tahiti a Miami via Panama (nota bene!)…..  L’albero è venuto giù, anche lì improvvisamente come la leva, pafff………. E allora, una barca che da una parte ti feriva e dall’altra ti dava la soddisfazione (in questo caso) di rientrare a Tahiti più rapidamente del previsto: 2000 miglia con una trinchettina issata alla rovescia, alternata a un ghoster, pure issato all’incontrario, con punte di velocità fino a 8 nodi: è lì che ti rassicuri, che ti dici “bene… non moriremo di sete e non soffriremo più di tanto la fame. Tieni presente che abbiamo disalberato il 18° giorno di navigazione contro l’aliseo, e che poi abbiamo impiegato solo 21 giorni per rientrare a Tahiti… Posso dire che siamo stati degli infortunati di lusso.

A proposito di rischi a bordo: durante le manovre di ormeggio di una nave, ero a prua a Montevideo in manovra in partenza con solo 3 persone e partecipavo anch’io alla manovra maneggiando i cavi, e all’argano il nostromo mi ha insegnato che bisogna stare almeno 3-4 metri distante perchè la gomena quando la metti in tensione diventa sottile come un elastico. C’era un marinaio che maneggiando uno spring in acciaio non ha fatto attenzione e il cavo gli ha portato via netto un braccio: anch’io ho questo ricordo dei rischi nelle manovre …

Dimenticavo, parlando di bei ricordi, che il Pen DuicK III è l’unica barca che mi ha disarcionato. Eravamo due in coperta: Eric al timone, mentre io rassettavo una scotta sottovento, dalla parte sbandata; non so dirti come mai, mi son trovato improvvisamente fuori bordo, senza però mollare la presa sul cavo che stavo sistemando…

E sono convinto, ho avuto la netta sensazione che Eric non si sia accorto di nulla, perchè sono rimasto per un po’ appeso così, poi mi son tirato su e sono tornato in coperta…

Forse m’illudevo, però ho sperato che Ric non mi avesse visto fare una cosa del genere, perchè sai, lui è stato durissimo, quando ha affermato: «Se qualcuno finisce in mare è perchè non ha il suo posto a bordo».

Lo disse dopo che ci fu il primo morto durante la prima Whitbread, e questa sua frase l’ho ricordata altre volte e l’ho scritta in qualche articolo.

Ma questa era la durezza di Eric: era esigentissimo prima di tutto nei suoi stessi confronti, lo era talmente che poi si permetteva di esserlo anche nei confronti degli altri, non considerando che lui era quel campione, quell’atleta straordinario, mentre gli altri erano gli altri.

È una regola che anch’io ho imparato nella vita, che devi essere sempre davanti, se tu fai le cose puoi pretenderle dagli altri, se non le fai non puoi pretenderlo da nessuno

Ma certo! Questa è una cosa che forse avevo già dentro di me, ma con Eric ho avuto la conferma in lettere maiuscole. Devi essere tu il primo a esigere tanto da te stesso, se poi vuoi aspettarti qualcosa dagli altri.

Parliamo di velisti: credi che, come nella vita, ci siano uomini, ommenicchi e quaqquaraqua, o le cinque categorie di Sciascia?

Questa è una domanda trabocchetto… Sì, sicuramente, come in tutte le micro società o ambienti sociali hai tutta la scala di valori, dal millantatore a quello che ha bisogno di apparire sempre e comunque.

Fare qualcosa pur di apparire… In mare è una cosa molto pericolosa; ho sempre in mente esempi di chi si è fatto veramente male o è addirittura sparito per il bisogno di apparire, di essere sempre e comunque presente nell’immaginario degli altri. Perdi la tua libertà di scelta, fino a diventare magari un millantatore.

L’ho anche raccontato, ne L’esilio dei sogni, di un francese che millantò di aver fatto la traversata dell’Atlantico in solitario, scrisse articoli per il club nautico… ma era tutto falso, perchè aveva navigato con due ragazze inglesi imbarcate a Gibilterra… Una guasconata, innocua. Ma so di situazioni odiose, anche violente, alla Conrad (soprattutto alle Antille), generate da individui che si credono liberi di maltrattare e addirittura violentare chi è a bordo della loro barca…

Nella prima parte del libro emerge il senso critico (negativo) nei confronti dell’uomo e pessimista della vita. Perché?

Mah, qui mi verrebbe da dirti che ho sempre odiato la storia come materia, quando dovevo studiarla. Questo mi ha portato ad avere pessimi voti in una materia stupida in fin dei conti, perchè basta imprimerti nella memoria date e dei nomi, e guerre soprattutto.

Sono convinto che l’uomo sia un “progetto sbagliato” e un essere perdente, perché in una guerra nessuno è vincitore……. Anche oggi stiamo facendo la storia con guerre che saranno studiate fra 40-50 anni dalle prossime generazioni.

Questo mi ha sempre impedito di sperare… Perchè dovrebbe cambiare? Fin da giovane mi sono sentito in sintonia con Leopardi, e poi con Schopenhauer, con Nietzsche… La Storia si ripete da sempre, si ripete a spirale, d’accordo, con quel tanto di diverso che ti fa andare sulla Luna… Ci siamo andati sulla Luna, però ripetiamo gli errori e gli orrori di sempre.

Mi racconti come si concilia il pessimismo giovanile, dichiarato, con la vita in mare, con il piacere della scoperta, come emerge parlando delle isole tropicali

Le due cose convivono, possono convivere tranquillamente. Per me c’è stato l’impatto con la Martinica, nel 1970, tanto che mi sembra di averle scoperte io le Antille… Poi sì, è arrivato Colombo…

Questa battuta può sembrare stupida, certo, ma per me è stata una tale rivelazione che l’ho vissuta con l’animo dello scopritore: mi sono innamorato della Martinica, del corpo dell’isola come se mi fossi imbattuto in una donna sensualmente meravigliosa… Può starci anche un po’ di pessimismo, l’importante è essere corrisposto dalla donna.

Posso dirti che sono stato corrisposto dalla Martinica e poi anche dalle isole successive, in maniera totale, corrisposto fisicamente ed anche moralmente, anche per gli incontri con le persone, perchè questo predispone a fare gli incontri giusti, non da turista, non da uomo bianco che porta il verbo, la democrazia, la sua cultura… o cos’altro ancora…

Su questo tema mi sono trovato abbastanza in disaccordo con Bernard Moitessier. Ne abbiamo discusso in più occasioni. Secondo me aveva ancora il riflesso dell’uomo bianco che per quanto aperto e intelligente, dove arriva tende a “colonizzare”. Voleva obbligare gli abitanti di Ahe a riempire di gatti il loro atollo, per combattere i topi… Ma i poveri gatti hanno fatto poi una brutta fine. Semmai quei pomotu che vivono lì dal 700 circa (ottavo secolo) hanno bisogno di antibiotici, ma non di essere invasi dai gatti… Invece sull’isola c’era solo un piccolo dispensario, con qualche cerotto.

Parlami della tua filosofia di vita, della teoria del ritardo, della contabilità esistenziale… la mia filosofia per esempio è: dormire è un po’ morire

Sì, quanto a dormire sono stato vaccinato dalle mie giovanili insonnie cittadine… Il ritardo è iniziato già a Milano, quando ero giovane studente; osservavo quei due o tre amici – soprattutto Massimo Jahier – e capivo che erano già più avanti di me nel fare le cose, più indipendenti dalla famiglia, molto più disinibiti nei rapporti con le ragazze.

E da lì poi mi venne quest’idea un po’ filosofica di calcolare quanto poteva essere il mio ritardo, una cosa da Liceo Scientifico, e arrivai a stabilire che doveva essere di almeno 5 anni… e questo mi portò a fare scelte, se non proprio per colmare il ritardo, almeno con l’idea di poterlo azzerare.

Credo di averlo in parte azzerato il ritardo. Adesso, con gli anni che si sono allungati nella scia, se mi guardo attorno in modo opposto e speculare rispetto a quando ero studente, posso dire che sono semmai gli altri ad avere un certo ritardo…

Mi fai pensare, perchè quando parlo con delle persone dalle quali ho solo da imparare, mi stuzzicano riflessioni per esempio sul ritardo: una delle mie manie è sempre stata di essere davanti al tempo, di anticipare quello che deve succedere, magari legato anche al lavoro, eliminare il ritardo… ti accorgi che è successo qualcosa e di essere davanti o alla pari, e ti dici “lo avevo previsto”

Questo per il navigatore è il riflesso principale, fondamentale, anticipare l’arrivo del cattivo tempo. Oggi con tutti gli strumenti che ci sono a bordo, bhè!, trovarsi in gravi difficoltà vuol dire non fare le scelte giuste. Però rimango dell’idea che sia meglio usare i propri sensi, tutti i propri sensi per rimanere in contatto con ciò che succede attorno alla barca e al suo interno. Questo vale in alto mare, ma anche quando ti muovi a terra, in città soprattutto.

Infatti, e mi fai pensare a ciò che mi ha detto Riccardo Tosetto, dopo la traversata appena terminata, a proposito di chi da terra ti suggerisce cosa fare e cosa non fare… Ma è a bordo che vedi l’altezza delle onde e da dove effettivamente arrivano

Ma sicuramente, guai se perdi il contatto fisico con gli elementi, che poi gli elementi naturali sono sempre quelli, e devi imparare a conoscerli, devi entrarci in famigliarità.

Sì, possono peggiorare secondo le circostanze, o migliorare. Ho fatto trasferimenti, in Mediterraneo e in Atlantico, con membri dell’equipaggio che non si accorgevano che l’isola che loro cercavano con gli strumenti elettronici, il radar per esempio, era già visibile all’orizzonte, a prua, lì dove doveva essere in base all’ultimo punto nave.

Moitessier e Làdavas a Papete: sensazioni di allora e il ricordo oggi

Erano il diritto e il rovescio della stessa medaglia. Grandi uomini di mare entrambi, ma antitetici.  Eric rincorreva il record, l’affermazione, non solo sull’avversario ma su sé stesso…

Lo ha dimostrato una volta per tutte quando vinse la Transat con il Pen Duick VI, nel 1976 se non sbaglio. Quella era una barca progettata per un equipaggio di almeno 14 persone… Eric non aveva trovato i finanziamenti per varare un nuovo progetto, e non aveva fatto in tempo a preparare il Pend Duick VI per una regata in solitario.

Si è trovato in mezzo all’Atlantico con il pilota a vento che non funzionava più, aveva mille motivi per tornare indietro con una barca troppo grande, troppo dura, impossibile da manovrare da solo… Stava per ritirarsi, ma poi ha rimandato la decisione; ha passato alcune ore sdraiato in coperta, sfinito, e quando si è rialzato ha deciso di continuar… Così ha fatto ed è arrivato primo.

Questo lo considero vincere sé stesso, prima ancora che vincere l’avversario.

Bernard era a modo suo un sognatore.

Mi ricordo che «sei un sognatore» era il peggior commento che Tabarly rivolgeva a qualcuno del suo equipaggio. Il malcapitato che non si comportava in navigazione come lui – o come il suo braccio destro Olivier de Kersauson – era bollato per sempre come “sognatore”.

Moitessier è stato un grande navigatore e anche un sognatore. Più agli antipodi di così rispetto ad Eric non poteva essere.

Hai avuto la grande fortuna di frequentare due miti del mare, della vela, della navigazione: Moitessier e Tabarly. Mi puoi dare una lettura in chiave psicologica delle due figure come uomo e velista?

Sai, i caratteri… Eric era un solitario, sempre e comunque, anche quando a terra andavi a bere una birra assieme o andavi a mangiare in un bistrot: parlava pochissimo, comunicava a modo suo con uno sguardo, con un gesto… e alla fine della giornata le parole scambiate con lui erano si e no  quattro o cinque.

Con Bernard no, abbiamo avuto sempre lunghe conversazioni. Lui era molto preoccupato quando mi ha visto partire con il Pen Dick III da Tahiti per portarlo a Miami, e mi disse:

«Ma è una follia, non puoi andare a Panama di bolina contro l’aliseo… No, devi scendere a Capo Horn…»

Dovetti spiegargli che non era una mia scelta…. Eric non voleva che la barca passasse da Capo Horn, e così m’impose di passare da Panama.

Me lo ricordo a bordo del suo Joshua mentre parlavamo di questo… Ma poi ha avuto ragione lui, perchè l‘albero a furia di soffrire contro l’onda e contro il vento si è spezzato in due, nonostante avessimo cercato di risparmiarlo il più possibile.

L’albero era posato in coperta, se fosse stato passante non sarebbe successo, questa era un’altra idea fissa di Eric che gli alberi dovevano appoggiare in coperta. Poi lui stesso ha disalberato con il Pen Duick VI durante la Whitbread successiva.

Insomma, lui aveva questa convinzione e non voleva retrocedere… Mi ricordo a questo proposito una bellissima discussione a Cape Town tra Eric Tabarly e Giorgio Falck, l’armatore del “mio” Guia. Io stavo seduto tra loro due e facevo da interprete, Giorgio da bravo ingegnere qual era cercava di dimostrare a Tabarly che l’albero appoggiato in coperta era un controsenso statico e meccanico, e sulla tovaglia di carta disegnava anche le forze in gioco e le loro componenti… Niente da fare, Eric non era d’accordo.

In quel caso aveva proprio ragione Giorgio Falck.

E anche Bernard Moitessier, che seguiva gli insegnamenti antichi.

Il disalberamento con il Pen Duick III: che sensazioni hai avuto quella volta, considerazioni su quell’esperienza. Pensandoci la rivivi?

Mah, sai, accadde oltretutto di notte. Se fosse successo di giorno, non dico che l’incidente sarebbe stato più allegro, ma di certo meno impressionante…

Quando in mezzo al Pacifico, nel pieno della notte ti viene giù tutto quell’ambaradan… con la visione spettrale della randa sott’acqua, ebbene, il ricordo non può che essere indelebile… I due tronconi dell’albero, che intero misurava 32 metri, si erano infilati di traverso sotto lo scafo… e noi lì con le torce ad illuminare l’enorme vela sott’acqua, rimasta attaccata a una ragnatela di cavi…

Questo è stato veramente un incubo. C’era la necessità immediata di liberarsi di quel fardello, soprattutto del boma che come un ariete urtava contro la fiancata di alluminio.

La barca senza vele non faceva che rollare con lo scafo di traverso all’onda… e quei colpi terribili… Ci mancava solo che si crepasse l’alluminio del fasciame! Grandi sforzi allora per liberarcene, con il rischio che qualcuno si facesse male.

Infine riuscimmo a issare in coperta il boma e soprattutto un troncone di albero, quello più corto, come reperti dell’incidente da mostrare a terra.

Tutti i cavi furono tranciati e da quel giorno albero, sartiame e randa del Pen Duick III giacciono sul fondo del Pacifico… Sì, mi capita di rivivere mentalmente quei momenti.

Giorgio Falck: l’imprenditore e il velista. Cosa ricordi di lui?

Il fumo… Era un fumatore accanito, iniziava al mattino con la prima sigaretta e poi non aveva più bisogno né di accendino né di fiammiferi, con il mozzicone accendeva subito un’altra sigaretta… Non è un’esagerazione: ci ho anche litigato quando sul Gatorade decise che io, come navigatore e suo secondo, dovevo occupare la cuccetta sopra la sua.

Lui fumava anche in cuccetta. Dopo la prima notte, dopo i primi turni gli dissi:

«Giorgio, mi spiace, ma io non ce la faccio proprio…»

Mi spostai da tutt’altra parte. Questo per dirti che il fumo era già qualcosa che ci separava. 

E poi ragionava da ingegnere, azzeccava e vedeva giusto tante cose, soprattutto tecniche, questo sì, ma sottovalutava del tutto il fattore umano, l’importanza di scegliere le persone giuste da portare a bordo… Questa componente non rientrava proprio nei suoi calcoli, al punto da creare seri problemi agli equipaggi…

Alla fine della prima tappa della Whitbread, a Cape Town, gli dissi:

«Giorgio, mi dispiace, o se ne vanno i tre fratelli, o io torno a casa. Non ce la faccio più a proseguire così…»

Alla partenza in Inghilterra, aveva imbarcato tre fratelli, in sostanza la metà dell’equipaggio… Già il pensiero che ci fosse un clan a bordo (il Guia era una barca piccola, potevamo essere in 5, massimo 6), era molto inquietante.

Lui insistette affinché io rimanessi a bordo. Si sbarcarono allora due dei tre fratelli… ma era già un miglioramento.

In compenso, Giorgio Falck era un ottimo timoniere, soprattutto con venti leggeri, un timoniere mediterraneo: grande concentrazione, precisione e pazienza.

Lui stesso mi raccontava che si era imposto di fare la tappa di Capo Horn perchè nei salotti bene milanesi avrebbe avuto così un argomento di cui parlare, e sorrideva con una certa dose di autoironia. 

Questo per significare che fisicamente non poteva affrontare quel tipo di navigazione… Tanto di cappello, se lo impose e doppiò Capo Horn. Ma poi dovette arrendersi e ci costrinse a fare uno scalo alle isole Falkland… E dire che eravamo in regata, ben piazzati per di più!

L’imbarco sul Guia e la Whitbread… che barca era?  Bellissima la descrizione nel tuo libro delle depressioni da Ovest nel Grande Sud.

Che barca è… Io l’ho sempre considerata uno strumento musicale, un liuto, perchè è tutta di mogano e costruita con la precisione che richiede uno strumento musicale.

Una signora barca, molto bella di forme, uno dei migliori progetti di Sparkman & Stephens. Ti dava e ti dà tuttora la certezza di poter navigare ovunque. Cosa che abbiamo fatto, sia con la Whitbread sia poi con il mio viaggio, di cinque anni, dai tropici ai canali della Terra del Fuoco.

Mi dava una tale sicurezza che mi resi conto, quando feci scalo a Buenos Aires dopo il secondo Capo Horn, che a bordo c’era una zattera di salvataggio completamente inservibile:

ero talmente sicuro di me, del Guia e della mia conoscenza della barca stessa, che non avevo pensato alla revisione della zattera prima di salpare.

Ti dirò di più, non avevo neppure la radio trasmittente a bordo; non l’ho voluta e l’ho lasciata a terra. Fu la prima cosa che sbarcai ad Antibes, e al posto dello scatolone verde che occupava tanto spazio feci costruire un armadietto per sistemarvi i libri di navigazione.

Giorgio mi lasciò la barca, e carta bianca circa il programma di navigazione. Mi disse solo:

«Prendi il Guia, tienilo per cinque anni. Torni allo scadere della mezzanotte del quinto anno. Parola d’onore?» Sì gli risposi. E gliela riconsegnai, puntualmente. 

Con quale barca ti sei sentito maggiormente in simbiosi?

Con il Guia, nella maniera più totale perchè, come ti ho già detto, potevo fissarmi la meta che volevo…

Avevo in mente l’Antartide, perchè già che scendi a Capo Horn tanto vale attraversare il braccio di mare che ti separa dall’Antartide.

Ma poi rinunciai, sempre per quella sensazione di avere in mano un violino Stradivarius… non vai a fare campeggio con un violino Stradivarius, non te lo porti a fare motocross… Allora niente Antartide. E già solo nei canali della Terra del Fuoco facevo molta attenzione a non urtare quei pezzi di ghiaccio alla deriva, i “growlers”, per fortuna quasi sempre visibili, perchè nei canali c’è poca onda e così li puoi evitare in tempo… Non mi sarei mai perdonato anche solo una piccola scalfittura allo scafo.

Donne sesso e amore che influenza hanno avuto fin da giovane? E poi arriva Leò

Qui devo un po’ autocensurarmi… Sono arrivato alla conclusione che siamo condannati per natura e per cultura ad avere sempre una donna al fianco. Condannati nel senso che da una parte questo ci condiziona molto… anche senza arrivare alla mia convinzione che la coppia sia qualcosa d’incompatibile, psicologicamente ma anche fisiologicamente… Forse per questo le coppie non durano molto, siano quelle etero sia quelle omosessuali… Lo dico io che vivo con Leò da 50 anni: una coppia, la nostra, che si è disaccoppiata più volte, per colpa mia o per merito mio non lo so… ma forse così l’ho fatta durare… In realtà Leò avrebbe dovuto darmi un calcio nel sedere e mandarmi fuori casa già da tempo, visto che sono a casa sua. Invece non l’ha fatto. Perché?… Credo per il grande affetto, che secondo me è la sedimentazione negli anni dell’antico amore, e anche per una questione di stima reciproca.

Per tornare alla donna, fin dall’inizio della mia attività di velista ho scelto la formula del “solitario con una donna a bordo”.

Cosa intendi con questa formula?

Quando navigo sono in un rapporto talmente diretto ed esclusivo con la barca, che la presenza di un equipaggio prima o poi mi crea non pochi problemi, o sono io a crearli agli altri… E allora perché non navigo da solo? Ho fatto circa 2500 miglia in solitario, sia in Atlantico sia in Mediterraneo, ma non mi hanno conquistato… E poi, vedi, un solitario ha sempre ragione, nessun testimone può contraddirlo… è sempre e comunque un superuomo… e questo non m’interessa.

Ma torniamo alla formula di “solitario con una donna”. È stato il mio modo di navigare ben prima che conoscessi Leò. Con una ragazza inglese mi capitò di trasferire, nel 1972, uno sloop di 12 metri da Fort-de-France a Marsiglia. Fu quella la mia prima traversata da skipper… e avevo una ragazza a bordo.

Con Leò ho vissuto un’avventura unica, irripetibile. Cinque anni ininterrotti di navigazioni, anche impegnative, e di scoperte… 

Io avevo coniato l’esigenza e l’importanza che la coppia non deve trovare l’equilibrio nella coppia ma deve essere matura l’individualità… l’unico modo di essere solitario nella coppia… e va rispettata completamente.

È difficile trovare donne che abbiano l’intelligenza di capire l’importanza di rispettare le individualità nella coppia.

Sono d’accordo… e queste parole avrei dovuto dirle io, perchè Leò lo ha capito perfettamente fin dall’inizio.

Mi hai raccontato alcune cose sulla necessità di isolarti quassù nel tuo studio, a volte per più giorni, davanti al balcone dove l’immaginazione oltrepassa le colline a Sud verso un orizzonte che non vedi, ma sai che c’è… Un po’ come la fascinazione del mare, e non puoi farci niente. Anch’io ce l’ho abbastanza, ma tu qui la interpreti in un modo particolarmente coerente  

Sì, in un certo senso è così, ed è proprio quello che chiamo «una solitudine attrezzata»: i libri, la musica, la scrittura, le traduzioni… Ho scritto qualcosa del genere nel mio secondo romanzo a proposito del protagonista.

La Polinesia e le Tuamotu. Hai mai pensato di viverci?

Ho vissuto con Bernard Moitessier nell’atollo di Ahe quando abbiamo costruito due “faré”, due abitazioni con tetto e pareti di foglie di palma intrecciate, seguendo i piani disegnati da Leò e abbiamo poi scavato un pozzo nella soletta di corallo dell’atollo… roba da lavori forzati… Bernard era convinto che avremmo trovato acqua dolce: un’idea assai più faticosa di quella dei gatti, e altrettanto fallimentare, perchè l’acqua che abbiamo trovato alla fine era torbida e salmastra.

Lui l’ha usata in seguito per innaffiare i primi pomodori, le prime verze…

Certo, grandi ricordi… e anche una certa nostalgia di ritornarci. Ma abitare no. Sono altre le isole che mi hanno fatto dire: «Non ho i soldi, ma me li faccio imprestare per stabilirmi qui».

Le Azzorre, soprattutto, per la loro natura un po’ aspra, una bellezza segreta che non ti seduce subito come le isole tropicali, ma che scopri poco alla volta… E gli abitanti, in pace con la loro terra, pronti ad adottarti se capiscono che sei sulla stessa lunghezza d’onda.

Capo Horn: un ricordo della Terra del Fuoco: ci sono stato con la nave più volte anch’io, una sensazione di essere in un altro mondo, una solitudine rumorosa, dove il mare, il vento, il paesaggio di questo “labirinto“  fanno rumore.

La prima volta l’ho doppiato in regata, durante la Whitbread. L’oceano era abbastanza calmo, così siamo passati molto vicino alla “sfinge”, come mi piace definire quella roccia, e abbiamo avuto il tempo di osservarla… Poi naturalmente le foto, le esclamazioni e i commenti dell’equipaggio, la bandiera italiana offerta al mare… e addio alla solennità della sfinge!

Io me ne stavo in disparte e dicevo dentro di me che quel luogo meritava un rispettoso silenzio, e che sarei tornato di certo lì, ma con un “mio” equipaggio.

Senti dire che Capo Horn è come il grande fascino degli 8000 per uno scalatore… è in parte vero perché non basta arrivarci, devi anche tornare a valle…  Quando hai doppiato Capo Horn bisogna poi affrontare tutto quello che c’è dietro… e se risali l’Atlantico devi passare le isole Falkland: è proprio lì che abbiamo preso una bella batosta, tant’è vero che l’armatore, Giorgio Falck, decise di farvi scalo… con il pretesto di comprare verdura fresca. E dire che eravamo in regata e ben piazzati!

Feci una grande litigata con Giorgio, io ero il navigatore… Ma non ci fu verso, aveva deciso di fermarsi e ce lo impose… Probabilmente era arrivato al limite della resistenza fisica.

Sarebbe bastato tener duro ancora una ventina di ore e saremmo stati fuori dalla depressione. In compenso, l’arrivo nella baia fu un momento magico perchè c’erano i delfini che ci guidavano, avevano capito che la nostra prua cercava il passaggio tra gli scogli e ci hanno pilotato, fino al punto tranquillo dove dar fondo all’ancora. Me lo ricorderò per sempre. 

Cosa si prova ad aver tradotto i libri di due grandi navigatori con i quali hai trascorso momenti importanti della tua vita?

L’ultimo, quello di Tabarly, ha un titolo secondo me un po’ fuorviante: “Guida alle manovre”. Rischia di essere liquidato come un vecchio manuale, dato che la sua prima edizione risale al 1978.   

Traducendolo mi sono reso conto che il libro tratta, sì, di manovre a vela, ma racconta anche aneddoti e ricordi personali del suo autore, ed è proprio questo l’aspetto più accattivante di questa Guida. Traducendola ho dovuto passare – come sempre – parola per parola, riga per riga, e mi sono accorto che al suo interno c’è un libro di memorie. Un lettore attento se ne rende conto.

Come mai ti sei rifugiato in montagna? Avrei pensato che non avresti potuto resistere lontano dal mare, anche se non sei l’unico navigatore che ha fatto questa scelta

È una scelta quasi fisiologica, o sono in mare con una barca a vela, o sono nell’entroterra… Ciò che potrebbe essere una via di mezzo, una casa con vista mare per esempio, potrei accettarlo solo su un’isola non tanto grande. E questo è un fatto. Poi c’è l’aspetto economico.

Quando fu il momento di lasciare il Guia e trovare una sistemazione a terra, la prima idea fu ovviamente di andare in Liguria nei dintorni di Chiavari o Sestri, a vedere se c‘era qualche rustico da comprare… Un’ idea folle, da ingenui!

Leò e io provammo a chiedere… Al terzo rustico capimmo che per poche pietre, da restaurare oltre tutto, sparavano cifre per noi impossibili. Accantonammo quell’idea e ripiegammo su quella che poi si è rivelata la scelta migliore: la casa natale di Leò in Piemonte, a 500 metri di altitudine nelle Alpi Pennine, non lontano dal Monte Rosa.

Ma non trovammo tutto pronto. Investimmo ciò che avevamo per adattare i tre piani della casa alle nostre esigenze, Leò è architetto; specialmente il mio studio, che è diventato con gli anni la mia zattera di salvataggio… Probabilmente senza di esso non avrei resistito nemmeno un anno.

Il piacere e la differenza fra tradurre un libro e scrivere un libro

La differenza più banale che mi viene in mente è che quando traduci un libro hai un binario già costruito e sta a te percorrerlo, con tutte le sue difficoltà: curve, salite, discese… facendo molta attenzione a non deragliare. Quindi, massimo rispetto del testo e chiarezza di linguaggio per rendere tutto comprensibile, anche i punti che il suo autore non è riuscito a risolvere… Soprattutto dimenticare l’orologio, non pensare che si sta impiegando troppo tempo e a conti fatti ci si guadagna molto poco… Se ti dici questo, meglio fermarti lì e lasciare la traduzione a qualcun altro.

Quando scrivi un romanzo, invece, la pista non c’è tutta bella e pronta, te la devi costruire via via che procedi. Adesso sto scrivendo un terzo romanzo, ma se mi chiedi come finirà la trama, non te lo so ancora dire.

Ci sono giorni in cui non riesco ad andare avanti, nemmeno di una riga. Il giorno dopo ci ritorno sopra e trovo come continuare… Questa è la grande differenza.

Cosa ne pensi delle regate intorno al mondo, quelle in equipaggio e quelle in solitario.

Mah… Mi viene in mente la Formula 1, i piloti di una volta, di due generazioni fa, e i piloti di oggi. Il parallelo potrebbe essere più o meno questo: io faccio parte dei piloti di una o due generazioni fa, mentre quelli di oggi sono piloti di Formula 1 con una vela sopra la testa e con i foils sotto i piedi… Trovo interessante quello che fanno, ma un velista rinchiuso nel suo abitacolo, che praticamente non esce mai in coperta… beh! mi lascia alquanto perplesso.

Comunque sia, ci saranno di sicuro ricadute tecniche anche nella produzione delle normali barche da diporto, e potranno essere interessanti.

Tre caratteristiche che deve avere un navigatore e uno skipper.

Credo che uno skipper debba essere anzitutto un navigatore, uno in grado di affrontare tutti gli oceani e non solo l’autostrada che porta alle Antille… È una questione di esperienza fatta sul campo… un’esperienza che non ti può dare la scuola, né la patente né tutti i brevetti possibili.

E mi rifarei all’esempio di Tabarly per quanto riguarda la caratteristica più importante: il vero skipper non dà ordini, ma è il primo a eseguire le manovre, affronta insomma la navigazione come se l’equipaggio non ci fosse… È una componente psicologica importantissima, anche se poi un equipaggio c’é e ti può dare quasi sempre una mano.

È fondamentale avere fiducia nelle proprie possibilità e sentire la barca come un prolungamento delle proprie mani… ma questo lo acquisisci con l’esperienza. Le regate d’altura, certo,

ma soprattutto i trasferimenti… i trasferimenti di barche diverse una dall’altra, possibilmente in oceano, in condizioni meteo sempre diverse, ecco ti permettono di acquisire un bel bagaglio di esperienze e una grande sensibilità al mezzo che hai sotto i piedi. Un po’ come succede con le automobili: diventi un bravo guidatore quanti più modelli guidi, passando magari dall’utilitaria alla macchina sportiva, costretto ogni volta a rifare la sensibilità allo sterzo, ai freni e alla tenuta di strada.

Il più bel ricordo, l’esperienza più forte, l’emozione più grande

Devo scartabellare nella memoria… Ecco: vedi quei due delfini che ho disegnato lì sulla botola della scala, sono diversi da quelli che conosciamo nei nostri mari, infatti sono delfini di Commerson, li puoi incontrare solo se vai nelle acque di Capo Horn e dintorni.

Vivono in un habitat molto limitato. I cileni e gli argentini li chiamano “toninas”, perchè hanno un muso più affusolato. Sono molto eleganti con quel dorso bianco, come una ghetta sul manto scuro.

Fu per me una grande emozione scoprirli: erano già stati scoperti da Commerson, appunto, ma vederli per la prima volta in avvicinamento a Capo Horn, e poi nei canali nella Terra del Fuoco, è stato un evento meraviglioso, tanto più che è raro avvistarli nel loro stesso habitat.

L’esperienza più forte: il disalberamento con il Pen Duick III. Improvvisamente non era più possibile continuare sulla rotta per Miami, e dovevamo inventare un armo di fortuna nel minor tempo possibile per tornare a Tahiti. Dovetti abbandonare subito l’idea di rimettere in piedi lo spezzone di albero, lungo circa 3 metri, rimasto sulla coperta in un groviglio di cavi… era impossibile tenerlo fermo mentre cercavamo di controventarlo, c’era il rischio che cadesse sulle teste dell’equipaggio.

Allora decisi di armare i due tangoni a V rovesciata, con due estremità incocciate in coperta e le altre due unite con grilli e destinate a diventare la testa del “nuovo armo”. Non rimase che controventarlo con uno strallo e un paterazzo… e già questo ci diede la conferma che potevamo issare della tela. Dopo varie prove, trovammo una trinchettina che issata al contrario poteva funzionare e così al tramonto siamo ripartiti, con punte di velocità da non credere. La mia grande preoccupazione era che venisse a mancare l’acqua da bere; abbiamo allora fissato un telo a mo’ di tendaletto per poter raccogliere la pioggia… Qualche giorno dopo cominciò a piovere e riempimmo tutte le taniche di bordo: la barca non aveva serbatoi… Ebbi così la conferma che potevamo farcela.

Dopo una ventina di giorni le montagne di Tahiti apparvero a prua.  Il P. D. III aveva due batterie che venivano caricate a ogni scalo… avevano ancora un po’ di carica e così, quando eravamo ormai a due miglia dalla costa, mettemmo in panne e con il VHF chiamai la capitaneria di Papeete. Dopo circa tre ore arrivò una barca a motore con tre uomini. La prima domanda che mi fecero fu: «Come mai ha chiesto il rimorchio?» Risposi che avevamo perso l’albero e che la barca non aveva motore… Indicarono l’armo di fortuna e chiesero: «Allora quello cos’è?». Seguirono altre spiegazioni, ma alla fine ci portarono in banchina a Papeete.

 Cosa consiglieresti ad un giovane che volesse praticare la vela e navigare? Quando e come iniziare?

Intanto evitare i saloni nautici e gli Yacht Clubs… Poi, dato che si tende anche inconsciamente a porsi come esempio, gli direi di fare più regate possibili con buone barche e bravi equipaggi… Io non ho mai avuto un vero spirito agonistico, però ho sempre accettato le regate perché sono la migliore scuola di vela… Quando inizi a fare regate, se ti dimostri appassionato e ti muovi bene a bordo, inevitabilmente passi da un armatore all’altro, da una barca all’altra, e finisci magari per conoscere il Tabarly del momento.

Mi dici che non hai mai avuto spirito agonistico, ma forse non è proprio così…..soprattutto perchè mi hai raccontato che ti piace la velocità, e regatando le emozioni non mancano…Nella competizione cosa privilegi? E se hai mai vinto a cosa lo riconduci? All’interpretare le previsioni meteo? Alle capacità dell’equipaggio? Alle caratteristiche della barca? Allo scafo?

Aiuto!… Allora, ho sempre pensato che nelle navigazioni oceaniche – anche in Mediterraneo del resto – meno si sta per mare e meno si rischia d’incappare in qualche batosta… Quindi la velocità intesa come elemento di sicurezza, oltre ovviamente al piacere e alle grandi emozioni che può dare; questo per me vale sempre,  al di fuori della regata… evidentemente in regata è un fattore vincente, oltre alla scelta giusta della rotta in base alle informazioni meteo, che oggi portiamo addirittura in tasca…

L’equipaggio deve conoscere molto bene la barca su cui si trova, e va bene… ma soprattutto deve esserci una sola testa che elabora i dati e decide, ovvero lo skipper, magari dopo avere ascoltato il parere del navigatore e del tattico: insomma, una sola persona che decide, per evitare l’effetto… armata Brancaleone. Possono suonare come ovvietà ormai superate… ma non credo.

Quanto agli scafi, mi dai l’occasione di accennare alla mia convinzione – maturata negli anni ’80 – che il vero progresso nella nautica è rappresentato dai multiscafi, i trimarani soprattutto…            Nel 1987, al timone di un trimarano, il Rusty Pelican di Fecia di Cossato, un magnifico progetto firmato da Dick Newick, vinsi la 2a edizione della regata “Atlantic Rally” (Gran Canaria – Barbados).

Anni prima, nel 1971, a bordo di una barca dello stesso armatore, il Caligu IV, mi era capitato di vincere la regata della Giraglia, in tempo reale e compensato nella seconda Classe.

E sempre in quel 1971, mese di ottobre, ero a bordo del Pen Duick III quando vinse la “Middle Sea Race”.

Nel 1995, con il catamarano Seagal, di cui sono stato skipper per cinque anni, ho vinto la “Transat des Passionnés”, edizione funestata da tragici incidenti avvenuti nel Golfo del Leone, poche ore dopo la partenza.

Progetti per il futuro? Cosa c’è dietro l’angolo.

Dietro l’angolo della scrivania c’è un universo… Può sembrare una battuta a effetto, ma ho imparato che tutto sommato non vale la pena di andare tanto lontano per scoprire chissà cosa… Adesso per me c’è la scrittura, ho pubblicato il primo libro quando avevo già doppiato la boa numero 64… Quest’anno è uscita una nuova edizione (Mursia 2024) con qualche ritocco. In realtà non ho mai smesso di riempire quaderni e quaderni di appunti… Ora sono alle prese con il nuovo romanzo… Non ho ancora ben chiara in testa tutta la storia e tanto meno il finale, comunque il mare c’è… è presente come sfondo.

Anche nel tuo secondo libro il mare c’è, ma è in filigrana.

Mi fa piacere che tu lo dica… infatti il mare me lo porto sempre dentro.

Prima di lasciarci mi consegna alcune note sul suo rapporto con Moitessier, dicendomi che se lo ritengo opportuno posso usarle nell’intervista. Dopo averle lette, ho pensato che possono rappresentare una testimonianza sincera e importante. Ve le riporto fedelmente, lasciando spazio all’immaginazione.


Bernard: un Don Chisciotte venuto dall’Indocina, con la differenza che BM si allea con quei mulini a vento che sono le vele del suo Joshua per combattere alcune battaglie civili contro la “connerie”, la stupidità dei contemporanei.

Era un uomo inseguito da tragici ricordi (la guerra civile in Indonesia, il suicidio di suo fratello venticinquenne nel 1951) e a sua volta rincorreva una dimensione assoluta dell’uomo e dell’esistenza.

31 gennaio 1973. Arrivo a Tahiti su un aereo militare con Eric Tabarly.

Il pomeriggio del giorno dopo BM m’invita a bordo del suo santuario rosso: il Joshua. Il piccolo boccaporto e la scaletta verticale per scendere nel ventre di una specie di sottomarino, soffocante in quel clima… Un sottomarino con le vele, che l’atletico BM era riuscito a far navigare a medie più che rispettabili con la sua grandissima abilità di marinaio…

BM mi mostra il Joshua e mi racconta, sorridendo, che dopo essere approdato a Tahiti alla fine della lunga rotta, fu costretto a praticare con la fiamma ossidrica un’apertura nella paratia stagna di prua e in quella di poppa, per dare più aria alla cabina e per poter circolare all’interno senza dover uscire in coperta. 

Una sera mi invita a cena sulla sua barca. Apre lo scorrevole dello stipetto di dritta, a fianco del tavolo da carteggio, e intravvedo una baguette (sfilatino) percorsa da scarafaggi come un viadotto dell’autostrada nell’ora di punta… All’irruzione della luce nell’armadietto gli scarafaggi schizzano via.

Mi raccontò dei due anni di galera passati a scrivere “La lunga rotta”. Parlammo di scrittura. Gli chiesi se avesse in mente un altro libro… «No, non sono uno scrittore, non sono capace di inventare… riesco a scrivere solo se ho qualcosa da raccontare, e adesso sono quasi quattro anni che non faccio niente d’importante» ……… Gli prospettai l’idea di scrivere un libro sull’impossibilità di scrivere un libro.

Disalbero con il Pen Duick III. Ritorno a Papete e ritrovo BM. (Prima di salpare mi aveva detto che l’idea di bolinare contro l’aliseo verso Panama – invece di scendere a sud, arrotondare e risalire lungo il Cile – era una follia).
Dopo quattro mesi di Pacifico, rientro in Italia in aereo.
Prima regata attorno al mondo.

Ottobre 1975, nell’atollo di Ahè con BM. Costruzione dei due farè.
A mezzogiorno cucina Leò e mangiamo tutti sul Guia; la sera invece sul Joshua (Bernard con moglie e figlio cenano alle 18.30 al più tardi).
BM ci mostra come non sprecare nulla: l’acqua che rimane sul suo bicchiere la versa nel piatto, sciacqua il piatto aiutandosi con un dito e poi beve l’acqua di risciacquo.
Convincere Leò a cucinare le oloturie (!), e a fare fermentare bucce di ananas allo scopo di ricavarne una specie di birra… una pisciazza imbevibile!

Più che pauperista, secondo me Bernard aveva la sindrome di Robinson Crusoe: viveva in un perenne stato di sopravvivenza, come una necessità di non tradire sé stesso e l’immagine che aveva dato e continuava a dare di se stesso agli altri. (Negli anni in cui l’ho frequentato, aveva già robusti diritti d’autore in banca).

Il guru BM è capace d’improvvisi scoppi di grande rabbia – come prendere per esempio il figlioletto Stephan e scaraventarlo in acqua facendolo volare sopra la spiaggia di Poro-Poro… Leò e io sbalorditi.

Marzo 1990, incontro BM a Venezia. Da un anno gli è stato diagnosticato un tumore alla prostata, con metastasi alla gamba destra. È un Bernard claudicante, un po’ curvo, dimagrito. Il suo aspetto si è fatto ancora più ascetico… Porta a tracolla una bisaccia di cuoio, è l’instancabile viandante di sempre.
Al momento di avviarmi alla stazione, decido di passare a prendere la valigia in albergo senza salutare BM e la compagnia. Ma il portiere mi porge un messaggio: mi stavano aspettando in un ristorante non lontano. Ci vado con la sensazione di ricadere nella trappola degli addii… Riuscirò a controllare l’emozione? Entro e li trovo che avevano da poco terminato il pranzo. Gli amici mi salutano con parole di circostanza… Solo BM sembra captare la sottile tensione di quel momento: prende il cestino del pane e me lo porge senza proferire parola, ma con gli occhi accesi di un sorriso che veniva da lontano, come il suo gesto…

Eppure il giorno prima lo avevo irritato: camminavo al suo fianco e dato che si parlava del mare diventato palestra di ogni sorta di primato, mi venne spontanea la domanda che da tempo volevo fargli: «Veramente non hai mai pensato al record in quella tua navigazione solitaria di dieci mesi senza scalo?» Mi rispose con un “no” secco e, fissando il selciato lucido davanti a sé, affrettò il passo… Lo vidi sparire nell’ingresso del suo albergo.

Dicembre 1992, lo ritrovo a Parigi, nel suo appartamento d’Issy-les Moulineaux, nella sala inondata di sole e rallegrata da svolazzi di canarini in libertà.
Gli restava un anno e mezzo da vivere.

In una lettera del 1990 mi aveva scritto: «Ho sublimato un poco le cose, ma io sono fatto così, e non potrei vivere senza sublimare tutto ciò che vedo, tocco, respiro e penso…»

Bernard, bravo o cattivo maestro?
Se, come credo, il bravo maestro è colui che insegna ai suoi allievi a rimettere in questione il maestro stesso e a superarlo dialetticamente, mentre cattivo maestro è chi genera nell’allievo l’imitazione acritica, e da qui la nascita del “guru”– allora Bernard non è stato un buon maestro…

È stato di certo un gran comunicatore e divulgatore, di se stesso prima di tutto, e di alcune idee semplici che cominciavano a interessare i giovani: l’ecologia, la critica allo strapotere degli USA (vedi il libro di Charles Reich: “The Greening of America”, che Bernard mi regalò a Tahiti con dedica) – ma soprattutto una visione romantica, illusoria, del mare come luogo in cui ritrovare una vera libertà “naturale”, sia fisica sia mentale.

Non dimenticare che le foto di Bernard barbuto sulla coperta del Joshua – ancora presenti nei sogni di giovani velisti e non – se l’è fatte lui stesso con grande maestria e grande astuzia (un lungo filo di naylon collegato all’otturatore della macchina fotografica) e con altrettanta abilità ha saputo usare la cinepresa che aveva a bordo.

Nell’introduzione vi avevo parlato di “perle”. Per chiudere l’intervista, voglio lasciarvene una preziosa, una sua poesia, un “haiku” che racchiude in poche righe la sua sensibilità scrittore e di… sognatore (non certo nel significato che Tabarly attribuiva a questa parola)

Mediterraneo

 Rattoppi d’affriche le voci,
isole alla fonda.

Ogni età sarchiata,
conchiglia d’inerzia la specie