CT43 Hunraken – il varo
Dopo una tranquilla notte nel porto romano, popolato delle ombre degli antichi mercanti, che trasportavano le famose ceramiche di Knidos per tutto il Mediterraneo, lasciamo la punta estrema della Dacia per imboccare il canale di Kos.
Doppiato il faro il vento ci viene dritto in prua, costringendoci ad avanzare a bordi. Due ore dopo entriamo nel golfo di Bodrum, dove il vento appena rinforzato gonfia le vele del Fabinou, lanciato in una bolina di buon braccio verso le isole Chatal, davanti a Turgutreis.
Verso sera, passate le Kuciuk e Buiuk Kiremitte, diamo fondo nella ridossata baia di Yalikawak. Dopo uno spaghetto e verdura cotta, accompagnati da qualche bicchiere di vino, Giovanni mi dice:
“Dai che sono curioso, come hai risolto?”
Mi risolsi dunque a fare una cosa che mi pesava molto: chiesi aiuto a mio suocero.
Lui non si fece pregare, aprì un conto presso la mia banca e garantì per me. In pochi giorni la fidejussione fu pronta e il primo cliente dei Cantieri del Trasimeno versò l’anticipo concordato. Pagai tutti e ordinai quello che mi mancava. Per la mia barca volevo il meglio e non mi interessava risparmiare: farsi un nome è difficile e altrettanto difficile mantenerlo.
Naturalmente oltre al mio capocantiere Nello, falegname di altissimo livello, avevo bisogno di altri operai, per eseguire tutti i lavori necessari di meccanica, impiantistica idraulica ed elettrica, attrezzistica, verniciatura e via dicendo. La barca doveva essere pronta ai primi di giugno. Presi contatto con i più noti artigiani della zona, e intanto andavo a visitare le aziende e i fornitori per farmi conoscere.
Mentre fervevano i lavori per proseguire l’allestimento della barca nel capannone di Uccio – a cui da dopo il salone pagavo senza alcun contratto un milione al mese, decisamente troppo per un capannone in condivisione e neppure ben attrezzato – io mi guardavo anche intorno. Dovevo trovare una sistemazione decorosa e funzionale da Cantiere Navale, con macchinari, impianti, magazzino, ufficetto, insegna ed anche una segretaria.
Il tamtam della darsena fece arrivare in cantiere due ragazze giovanissime: Brunella e Giuliana. Pochi giorni dopo Brunella venne assunta e divenne la segretaria storica dei “Cantieri del Trasimeno”. Il nostro rapporto di lavoro durò per qualche anno, fino a quando decise di sposarsi e di trasferirsi con il marito in Campania. La sostituii subito, perché non potevo stare senza qualcuno in ufficio durante le mie assenze; ma Brunella rimane una figura legata indissolubilmente a quei primi anni di vita del cantiere.
Ad affiancarmi nell’improbo lavoro di gestire la mia S.R.L, buste paga, prima nota, bilanci, formalità amministrative e quant’altro, fu sempre Claudio Giglioni, con uno splendido studio da commercialista a Todi, l’amico che ho già ricordato, parlando delle vicissitudini che portarono alla nascita dei Cantieri del Trasimeno S.r.l.
Per tutti questi anni Claudio mi è stato a fianco, una vera amicizia completamente disinteressata, al punto che non ha mai voluto essere retribuito per tutto il lavoro che il suo Studio ha svolto e per tanto altro che ha voluto fare per me.
Un uomo fuori dal comune, appassionato di antiquariato e di arte, incrollabile nei suoi principi etici, attento osservatore dei movimenti della Borsa, ma nel quotidiano spesso distratto e di conseguenza protagonista di episodi estremamente pericolosi per la sua vita; accompagnato da una moglie devotissima, che gli ha dato una femmina e tre maschi, oggi tutti e tre con studi da commercialista a Perugia. Ma di Claudio parlerò ancora.
I lavori sulla barca procedevano speditamente, con le solite difficoltà e contrattempi di un lavoro appena nato e impostato solo sulla bravura degli artigiani e sulla determinazione di un appassionato velista, che li dirigeva, imparando da loro una infinità di segreti del mestiere. Il mese di giugno, data contrattualmente prevista per la consegna, si avvicinava velocemente. Intanto cercavo di occuparmi anche della comunicazione. Come giornalista avevo contatti con i media del settore, in particolare “Nautica” e “Vela e Motore” sui quali apparvero le recensioni del CT43 Hunraken. Questa prima versione era stata creata per il charter e vi trovavano posto ben 10 posti letto, compresi naturalmente quelli della dinette trasformabile. Il nome Hunraken (uragano), trovato in una lettura ambientata nei Caraibi, mi era piaciuto. Oggi forse lo avrei chiamato diversamente, ma quel nome va letto con riferimento al mondo diportistico del 1980 e alla fantasia di un quarantenne, con molteplici esperienze di lavoro, felicemente sposato e padre di due bambine, ma rimasto in fondo un ragazzo con i sogni della sua adolescenza.
Il cliente, malgrado le mie perplessità, aveva voluto l’applicazione di una timoneria idraulica, che io commissionai alla BCS di Limite sull’Arno, mentre alla Vetus ordinai il motore Peugeot marinizzato.
Il lavoro che facemmo insieme fece crescere una reciproca simpatia con i titolari e gli impiegati di queste due ditte, creando un buon rapporto, proseguito anche negli anni successivi alle vicende del cantiere.
Il cliente ha sempre ragione, specialmente questo, che era il primo acquirente di un mio sogno, che lentamente prendeva vita dalle mani esperte dei migliori artigiani di Viareggio. Si, parlo di sogni, perché in fondo mi vedevo con una delle mie barche navigare tra i Caraibi e le Tuamotu, e le costruivo ognuna come se fosse la mia, per poter solcare sicure le onde degli oceani. La mia scelta di un progetto di Sparkman & Stephens era in un certo senso la garanzia di una carena dalle linee e dal passo oceanico.
Incontrai un consulente del Registro Navale Italiano, che ingaggiai per organizzare la mia barca con le paratie stagne e quanto necessario per ottenere due risultati: il primo evitare di passare all’IVA al 24%, che avrebbe mandato il prezzo di vendita fuori mercato; il secondo di ottenere il certificato RINA di “Qualità Superiore”, che attestava le caratteristiche di costruzione dello scafo, dalla stratificazione agli impianti. Per la qualità superiore erano necessari tra l’altro diversi carotaggi dello scafo, che feci coincidere con le aperture delle prese e degli scarichi a mare.
Durante quei mesi non mancarono i colpi di scena.
Una mattina, quando Nello ed io stavamo per entrare in cantiere, vedemmo una Fiat millecento E di colore blu, parcheggiata in fondo al piazzale. Sembrava che non ci fosse nessuno. Appena misi le chiavi nella serratura si materializzarono due persone armate di mitra:
“Appoggiate le mani al muro e fate due passi indietro.”
La nostra paura doveva essere evidentissima:
“Niente paura, siamo carabinieri”. Non erano in divisa e lì per lì non mi fidavo. Ci perquisirono rapidamente e perquisirono la mia auto e la Vespa di Nello. Poi entrammo tutti e quattro in cantiere.. Cercavano un certo L.S. che io non conoscevo, evidentemente noto come spacciatore. A seguito di una soffiata relativa ad una partita di droga in arrivo da Livorno, lo cercavano nel cantiere di Uccio, che in quei giorni non c’era. Di questo L.S. sentii parlare ancora qualche tempo dopo e poi lo conobbi personalmente. Anche lui aveva avuto un ruolo nel mondo della nautica, dove saltuariamente operava ancora con una sua clientela. Come mai si fosse invischiato con la mala e la droga non lo seppi mai, ma qualche anno dopo ebbi di nuovo a che fare con lui.
Venne il mese di maggio e finì con la velocità di una meteora, in un frenetico avvicendarsi di lavori e piccoli inconvenienti. Ma alla fine la barca era quasi pronta.
Così, senza ancora la cuscineria e con la verniciatura appena iniziata, giunse il momento del trasporto in darsena. Il capannone di Uccio era vicino al casello dell’autostrada, il che presupponeva il passaggio sotto il cavalcavia, con un problema di misure in altezza. Arrivò il Vettori con il suo carrello e la scorta della stradale….Quando il CT43 lasciò il piazzale fu un momento emozionante, ma solo per un attimo. Il pulpito di prua per due centimetri non entrava nel sottopasso. Solo la professionalità del Vettori, che riuscì a guadagnare quei due centimetri in altezza sul carrello mi evitò di dover smontare il pulpito per poi rimontarlo in darsena…
Il passaggio sotto l’autostrada fu da cardiopalma, ma alla fine la barca fu messa a terra sul suo invaso, con l’albero a fianco, adagiato su cavalletti e pronto per essere montato.
Qualche giorno dopo, finiti i lavori di montaggio, lucidata la verniciatura degli interni, concluso il lavoro del tappezziere e applicate due mani di antifouling, la mettemmo in mare. Nessun varo ufficiale, perché avevamo fretta di finire i lavori per il giorno della consegna, che ormai era imminente. Malgrado il nostro silenzio il solito tam tam aveva fatto circolare la voce del varo e così quando la gru la mise in acqua le sirene degli yachts tutte insieme salutarono la nuova nata. E questo fu anche il primo riconoscimento che i Cantieri del Trasimeno, anche se modestissimi, entravano ufficialmente a far parte del mondo dei costruttori navali di Viareggio.
Poi arrivò Mario Pini, soprannominato “Tintoretto” perché dipingeva sugli scafi i nomi delle barche, ex grafico della CocaCola, pittore e marinaio, che avevo incaricato di battezzare la barca con il suo pennello. Lui lavorava così: preparava il progetto grafico, vi sovrapponeva della carta trasparente e la bucava con uno spillo, seguendo le linee del disegno. Preparato il lucido, lo appoggiava sullo specchio di poppa dell’imbarcazione e lo“spolverava” di grafite, che lasciava la traccia puntinata del disegno. Poi, con un lunghissimo pennello munito sulla estremità superiore di una pallina (che gli serviva da contrappeso), reggendosi il braccio con il sinistro, dipingeva a mano libera il nome, e ne usciva un capolavoro. Vederlo lavorare in camice bianco era uno spettacolo. Mario Pini, un personaggio unico, divenne presto oltre che un collaboratore un amico e – non ultimo – un pilastro dell’equipaggio da regata del mio Impala 36. Anche di lui avrò modo di parlare ancora.
L’acquirente arrivò il giorno dopo, quando la barca appena finita era ormeggiata nel canale.
Guardò attentamente ogni particolare degli interni e ne fu soddisfatto. Era il momento di uscire in prova.
Accendemmo il motore e lasciammo gli ormeggi. A tre nodi uscimmo dal “bozzone” e affrontammo per la prima volta il mare, appena increspato da un leggero maestrale.
La barca si muoveva egregiamente, la portai a sei nodi. La risposta della barca alla accelerazione del motore era immediata, merito di Radice, che aveva studiato l’elica più adatta a quella motorizzazione.
Poi l’intoppo: la ruota del timone smise all’improvviso di governare, girando a vuoto!……Panico dell’acquirente. Non gli diedi il tempo di parlare. Mi precipitai all’interno, in cabina di poppa aprii il vano del rinvio della timoneria. Il dado che assicurava la ruota dentata alla pompa idraulica si era allentato, facendola uscire dalla chiavetta che la bloccava sull’asse della pompa. Perciò la catena galles, comandata dalla ruota del timone, la faceva girare a vuoto. Evidentemente il dado non era stato stretto bene. Una distrazione che poteva causare serissimi problemi se non fossi uscito in mare io con l’acquirente. In pochi minuti lo riavvitai provvisoriamente a mano per poter rientrare in porto. Tornando in pozzetto passai davanti al vano motore e sentii anche un leggero odore di nafta.
Mi scusai con l’acquirente e gli spiegai cosa era successo. Gli dissi che dati i tempi strettissimi non ero riuscito ad uscire in mare nei giorni precedenti, ma che mi pareva necessario fare qualche giorno di prova prima di consegnargli la barca. Non ne fu felice, ma devo dire che tutto sommato fu molto comprensivo.
Mai più consegnare una barca senza essere uscito in prova, mi dissi. Un impegno che purtroppo non sempre riuscii a mantenere….
Dovevo capire che cosa era successo, un inconveniente che doveva essere assolutamente evitato e che faceva fare una pessima figura al mio cantiere.
Chi aveva lavorato a collegare sull’asse della pompa idraulica la puleggia dentata che riceveva dalla catena galles gli impulsi della ruota del timone?
Gli attrezzisti che avevo ingaggiato per il lavoro di supporto nei diversi montaggi ”semplici” delle parti meccaniche erano due: Paolo e un suo collega, impiegati dell’Acquedotto, che venivano a fare gli straordinari nelle ore libere e il sabato. Paolo era molto bravo; l’altro, soprannominato dai viareggini – che non facevano sconti a nessuno – “la put…..na dell’acquedeotto” (perché spettegolava sui fatti di tutti) lo avevo accettato perché me lo aveva portato Paolo. Ne parlo non perché lo meriti, ma perché mi ha causato alcuni guai seri con la sua distrazione e il poco impegno che metteva nel lavoro. Guai che mi sono costati tra l’altro non solo in termini di immagine, ma anche parecchio denaro, come racconterò in seguito.
Lì per lì non capii che tipo di persona era. Si scusò, dicendo che preso da altri montaggi non aveva controllato, e la cosa finì così.
Ma avevo anche sentito odore di nafta. Appena possibile aprii il vano motore e mi accorsi che i tubetti metallici di collegamento degli iniettori e del ritorno della nafta non erano saldati ma collegati con dadi filettati.
Mi misi in contatto con la Vetus e l’amico Bini venne subito a Viareggio. Gli feci cambiare tutti i raccordi con tubi di rame saldati e concordammo che i successivi motori mi dovevano essere forniti già con questa modifica.
Nella settimana successiva uscii in mare con Nello per collaudare tutto. La barca rispondeva egregiamente. Controllate le prese a mare, i wc, le pompe di sentina, gli impianti elettrici e idraulici, l’autoclave, il salpaancore, la tesatura del sartiame, le attrezzature di coperta, finalmente la barca fu pronta per la consegna. A questo punto, secondo gli accordi presi con l’acquirente, non sarebbe più venuto lui a ritirarla, ma avrei dovuta consegnarla io ad Alassio.
Devo dire che la cosa mi faceva molto piacere! Con l’amico Roberto partimmo da Viareggio e finalmente potei godere per la prima volta della barca che avevo voluta, ridisegnata, fabbricata e attrezzata secondo le mie idee. Solcava l’acqua sicura, liscia e senza arresti sull’onda, spinta da una leggera brezza che gonfiava le vele costruite da Manfredini a Carrara. Fu una bellissima veleggiata, che mi riempì di entusiasmo, smorzato solo dal fatto che l’acquirente, dopo la magra figura della timoneria non si fidava troppo e pretese di aspettare trenta giorni a darmi parte del saldo….
Conclusa la consegna e tornato a Viareggio dovevo affrettarmi ad organizzare una nuova barca per il Salone di ottobre. La stampata era pronta a Cecina, ma non avevo ancora trovato il capannone….e un milione al mese senza poter mettere la mia insegna era un boccone che non riuscivo a digerire.