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Bernard Moitessier 2

Bernard-Moitessier—Wikiradio-del 21-06-2016
2-continua (leggi 1)

Il 21 giugno 1969 Bernard Moitessier, dopo aver percorso a vela un giro e mezzo del mondo senza scalo in solitario, arriva a Tahiti. Fabio Fiori l’ha raccontato a wikiradio, a cura di Loredana Rotundo, con Antonella Borghi, Lorenzo Pavolini e Roberta Vespa.

 

Dopo un altro breve periodo di lavoro con il padre, gli si presentò l’occasione di acquistare assieme a un amico una vera barca di tipo europeo. La chiameranno Snarc come quella di Jack London, lunghi lavori, peripezie, varie, cambio di equipaggio e una rocambolesca navigazione verso Singapore e ritorno.

Ma ormai i pensieri di Moitessier erano tutti rivolti verso la libertà degli oceani: “Non avevo molto grasso addosso prima delle zone delle calme, e adesso non ne ho neanche un poco. Ma il barometro interiore sta risalendo rapidamente e mangio volentieri. Tutto va bene nella barca, come nell’equipaggio”.

Il mare insegna però che i sogni spesso naufragano. E così accadde anche a Moitessier in quell’iniziale esperienza di solitario sulla giunca a Marie Thérèse. Sul libro di bordo qualche ora prima scrisse: “4 settembre 1952, il nostro ottantacinquesimo giorno di navigazione da Singapore”. Di lì a poco i due, la barca e l’uomo finirono sugli scogli dell’atollo Diego Garcia nell’arcipelago delle Ciagos, disperse nell’enormità dell’Oceano indiano, esattamente a metà strada tra Sumatra est e il Madagascar Ovest. Lì dove finisce questa navigazione comincia il suo libro d’esordio, “Un vagabondo dei mari del Sud”, pubblicato nel 1960, che gli dà qualche soldo e una certa fama. Un libro inusuale perché narra una storia che inizia con un naufragio e si conclude con un altro a bordo di una seconda barca: Marie Thérèse II. L’aveva costruita con le sue mani nel 1953 sull’isola di Maurizio.

Lì era arrivato a bordo di una corvetta inglese e lì, dopo qualche mese, uno squalo l’aveva azzannato a un piede durante una battuta di pesca subacquea, attività che gli serviva per sbarcare il lunario. Un abile chirurgo evitò il peggio e una serie di fortunati incontri gli permisero di mettere in cantiere Marie Thérèse II, una barca lunga solo 8 m e mezzo, senza motore ausiliario, costruita a occhio e croce nell’isola dell’amicizia, “una terra dei miracoli” scriverà poi.

Dopo tre anni, Moitessier fece vela verso Occidente. Non fu una navigazione facile per il maltempo trovato nel canale del Mozambico e una successiva onda anomala che stese la barca semi-sommergendola trascinando fuoribordo Moitessier. Malgrado ciò riuscì a raggiungere Durban, sulla costa Nord orientale del Sudafrica, e in questa sosta che entra per la prima volta in contatto con gli uccelli d’alto mare, solitari come lui, o comunque marinai con equipaggi familiari che vivevano a bordo. Giramondo spesso squattrinati, dotati però di un grande spirito d’adattamento, sempre alla ricerca di ancoraggi sicuri e gratuiti dove riposare e pigramente riassettare la barca in vista di altri voli oceanici.

Per Moitessier saranno amicizie importanti, sia per risolvere i problemi del quotidiano, sia per alimentare la sua sete di conoscenza. Una condizione, quest’ultima, che sembra essere la ragione della sua vita adulta di eterno errante, scriverà Francesco di Franco, traduttore di “Un vagabondo dei mari del Sud”. Nell’introduzione avverte subito il lettore, Moitessier rimarrà sempre incomprensibile, perché sia il senso di rivolta che provava verso la società, sia la vita solitaria sono costellate di contraddizioni. Ma la contraddizione è lo scotto che debbono pagare le nature sensitive ingenue. Moitessier da Durban favela verso città del capo, poi Sant’Elena, Fernando de Noronha e infine Trinidad, l’isola più meridionale dei Caraibi. Tutto l’Oceano Atlantico, da un emisfero all’altro, in buona parte percorso come una regata da due piccole barche su Marie Thérèse c’è Bernard, su Wanda c’è Harry, un amico conosciuto a Durban, che sarà per lui un fratello d’altomare.

Le avventure dei due continueranno navigando di conserva fino a che Marie Thérèse II finirà sugli scogli dell’isola di San Vincenzo, nel Mar dei Caraibi, questa volta per un fatale colpo di sonno. È il 1958 e lì si interrompe la rotta di questa sua terza barca. Un amore profondo raccontato in “Un vagabondo dei mari del Sud”. Questo suo primo e fortunato libro lo scrive su sollecitazione e aiuto del giornalista Jean Michel Barrot, conosciuto a Parigi, dove arrivò qualche mese dopo il naufragio. La capitale è il grande deserto che Moitessier riuscirà ad attraversare per ritrovare il mare, grazie anche a François, la prima delle tre donne che insieme alla madre aiuteranno l’uomo Bernard, emotivamente complicato e contribuiranno a costruire il mito Moitessier poeta ipersensibile, riprendendo le parole della moglie.

Quella piccola donna che pesava 45 chilogrammi, come l’ancora della loro futura barca, era giovanissima, ma aveva già tre figli, avuti da un precedente marito nel 1961, Moitessier la sposa e costruisce Joshua, o meglio, ne segue la progettazione e la costruzione ad opera di un architetto e di un cantiere che prestano la loro opera gratuitamente. “Sono grato a Jacques Noquer che disegnò gratuitamente i piani dello scafo, gli era piaciuto il mio primo romanzo”.  Il Libro piacque anche a Joseph Freecot, che costruì Joshua facendomi pagare solo il costo delle lamiere e delle bacchette di ferro per saldarle. Joshua in onore del grande navigatore americano Joshua Slocum, che per primo fece il giro del mondo in solitario. Joshua, scafo in ferro a carena tonda di 12 m, ha un armamento semplice e spartano, a partire dai due alberi ottenuti da pali telegrafici. Diventerà la sua barca più famosa con cui percorrerà migliaia di miglia. Una vera e propria icona, conservata oggi al museo marittimo di La Rochelle, in Francia.

Joshua ha ripreso l’abbrivo e comincia a vivere; l’acqua mormora sulla carena. Chi non sa che una barca a vela è creatura viva, non capisce niente di mare”.

Dopo un paio d’anni, il 13 ottobre 1963, Bernard e François lasciano il porto di Marsiglia in direzione di Gibilterra. Vogliono attraversare l’Atlantico, passare il Canale di Panama e dirigersi verso la Polinesia. In quei giorni tutta la Francia piange la morte di Edith Piaf e Jean Cocteau e anche il Mediterraneo urla il suo dolore. Un mare che li costringe a tornare immediatamente indietro per poi ripartire dopo qualche giorno. “Un mare meraviglioso ad osservarlo dalla gettata di un porto, ma demoniaco appena si vorrebbe far via”, scrive Bernard nelle prime pagine del suo secondo libro, “Capo Horn alla vela”.

I Moitessier lasciavano i due figli maschi in collegio e la figlia con la zia materna. Per Francois fu una scelta dolorosa, e i mesi che seguirono furono insieme felici e difficili. La prima parte del viaggio si conclude a Tahiti il 20 maggio 1965. Di lì ripartono in novembre per tornare direttamente in Europa, senza scalo; agli occhi di Bernard e la rotta logica 14.000 miglia verso est, lasciando a sinistra il più temibile dei capi l’Horn. Va precisato che si tratta di un’isola sotto il 55° parallelo sud, che segna idealmente il confine tra due oceani, il Pacifico e l’Atlantico. Lì la forza dei venti e delle onde, che solo a quelle latitudini sono completamente libere dalle terre emerse, unitamente ai bassi fondali, fanno del capo il più difficile da doppiare, quello che nei secoli dell’età della vela era il più tristemente famoso. Centinaia di navi naufragarono, migliaia di marinai morirono e tutte queste disgrazie ne amplificarono terribilmente la fama. Nel mondo della vela, aver doppiato Capo Horn equivale ad aver scalato l’Everest.

Bernard e François lo fecero tra i primi, stabilendo per l’epoca un primato di percorrenza dopo 126 giorni. Joshua arrivò da Alicante, nel sud della Spagna.

Mentre Francois ritrova felicemente la routine lavorative familiare, Bernard dopo qualche mese cade in depressione, una situazione che lo porterà a decidere di ripartire, questa volta in solitario. La storia della lunga rotta è quella che abbiamo già raccontato, conclusa Tahiti il 21 giugno 1969.

Guardando le carte, un capo sembra uguale a un altro, ma per il marinaio un gran capo rappresenta un complesso estremamente semplice e insieme complicato di scogli, correnti, di onde, frangenti e di mare bello, di venti freschi e di burrasche, di gioie e di paure, di sogni, di mani doloranti, di pancia vuota, di minuti meravigliosi e talvolta di sofferenza. Un gran capo per noi non può tradursi solo in longitudine e latitudine.

Un gran capo ha un’anima liscia come quella di un bambino, dura come quella di un criminale. Ci si va per questo”.

Ma se la barca si fermerà nel porto di Papeete per un paio d’anni, l’animo di Bernard continuerà a vagare, mentre la mano scriverà in maniera lineare le miglia percorse e in modo confuso le idee maturate. Ad aiutarlo sarà un’altra donna, Helen, del tipo il più evoluto, racconterà Bernard. Gli furono necessari due anni per completare il libro, che si conclude con il racconto di una seconda svolta dopo quella nautica che lo portò ad abbandonare la regata. Una svolta insieme politica, ecologica e mistica, in cui decise di donare i diritti d’autore del Libro al Papa. Per lui era il simbolo della piccola fiamma di spiritualità sopravvissuta in Occidente. Peccato che il Papa non prese neanche in considerazione la buffonata dei diritti, come la chiamò lo stesso navigatore più tardi con Helen, Bernard e Bonfiglio Stefan nel 1971. I tre vissero insieme per una decina d’anni in alcuni atolli del Pacifico. Helen dipingeva per vivere e accudiva il figlio mentre Bernard cercava di trovare un difficile equilibrio stanziale.

Sono gli anni della vita sulle isole Suwarov, Ahe, Moorea, delle battaglie antimilitari e di quelle ecologiche. Moitessier agli occhi dei polinesiani è Tamata colui che tenta, colui che prova a piantare alberi da cocco e a cercare l’indispensabile acqua dolce in attolli sperduti. Condivide queste esperienze con i polinesiani e con i Popa, gli europei arrivati in pacifico seguendo il richiamo di Melville e Gauguin con alcuni stringe amicizie stimolanti e durature, come con una famiglia di italiani, sono Ugo Conti, la moglie Isabella e il figlio, arrivati in barca in Polinesia dalla California, dove si erano trasferiti negli anni 60. Saranno loro a far nascere nei Moitessier la voglia di scoprire l’America.

Ma prima di partire, Bernard si lancia in un’altra delle sue imprese, donchisciottesche invia una lettera aperta ai sindaci di Francia con la richiesta di piantare alberi da frutta lungo le strade, dovunque sia possibile, i giornali la pubblicano e i sindaci rispondono numerosi.

Poi parte e arriva a San Francisco con Joshua, dopo una navigazione in solitaria di 38 giorni nell’autunno del 1980. Di lì a poco lo raggiungono Helen e Stefan, con cui condividerà gli entusiasmi e le asprezze della vita americana. Ma ancora una volta, inaspettatamente, Moitessier naufraga, questa volta a causa di un ciclone che lo coglie impreparato a bordo di Joshua, all’ancora a San Lucas in Messico. Un errore fatale, legato anche alla presenza a bordo di un’ospite fuori dal comune, Klaus Kinski, un gigante della creazione, lo definirà Moitessier. Che però a bordo scoprirà un’artista, che è un nano di marinità. Di notte, in poche ore, il vento e le onde spiaggiano una ventina di barche, tra cui Joshua, che si ritrova al mattino senza alberi, timone e insabbiato per metà. Moitessier ha 57 anni e vaga su quella spiaggia come il fantasma della sua barca. Ugo Conti e altri amici corrono immediatamente in aiuto, risollevando per la terza volta il naufrago.

Joshua viene recuperato, è ancora galleggiante, ma Moitessier non ha più le forze materiali ed economiche per rimetterlo in navigazione. Decide così di regalarlo a due ragazzi che lo avevano aiutato nel recupero. I libri di Moitessier sono pieni di animali mitologici, gli stessi che hanno popolato la sua vita, un Pantheon multiforme e cosmopolita. Ci sono mostri, draghi, bestie, uccelli maligni e benigni, come la luminosa Goletta bianca che gli suggerì di abbandonare la regata per proseguire la lunga rotta. Ma i nostri occhi. È lo stesso Moitessier ad incarnare un animale mitologico, La Fenice. L’uccello che ciclicamente rinasce dalle sue ceneri è una Fenice Marina capace di rinascere dai suoi relitti.

E così fece anche dopo il naufragio del Joshua, quando, grazie a un’altra serie di circostanze favorevoli, nel 1984 riprese il mare con Tamata. L’ultima barca, un cutter d’acciaio di 10 m con cui dalla California ritornerà in Polinesia. Voleva ritrovare la pace per potersi dedicare all’autobiografia, un progetto che accarezzava da anni. La bella storia con Helene si era conclusa e Moitessier temeva che in America sarebbe finito come un relitto. Così, Bernard Renard fiuta il vento e rialza le vele per ritornare a Tahiti. Bernard la volpe, come lo ha amichevolmente chiamato Luciano Làdavas, navigatore oceanico, compagno di avventure polinesiane e traduttore di “Tamata e l’alleanza”, l’autobiografia di Moitessier. Per lui anche questa volta non sarà facile il confronto con la pagina bianca, fino a che un’altra donna, Veronique, lo accompagnerà nella lunghissima stesura che lo impegnò dal 1986 al 1993.

Anni trascorsi principalmente a Parigi fino alla morte il 16 giugno 1994.

Negli ultimi tempi è attaccato da un’altra bestia chiamata cancro. Sarà il bambino che ha sempre vissuto in lui a suggerirgli di non combatterla, ma di provare ad addomesticarla. È come se doppiassi Capo Horn, da est a ovest, destreggiandomi nel purè di piselli, scriverà con molta autoironia. Quel bambino gli spiegherà anche come riappacificarsi con gli spiriti maligni del suo adorato villaggio natale, tra il mare e la foresta. Chi è e dove situare Bernard Moitessier l’inattuale? Si chiede Luciano Làdavas.

Come spiegare la sua ascesa a guru della vela? Riprendendo le parole di Dominique Charnais, un altro amico e biografo. Perché Moitessier, nell’immaginario collettivo, ha superato tutti gli altri navigatori partiti prima di lui e nessun altro lo ha ancora raggiunto. Ognuno avrà una sua risposta, magari antitetica alle altre. Io mi limito a ricordare l’ultima frase di un vagabondo dei mari del Sud: “allora, con l’aiuto del cielo, la parola barca sarà sinonimo di libertà”, precisando solo: barca di qualsiasi dimensione, libertà in qualsiasi dimensione.

Il 21 giugno 1969 Bernard Moitessier, dopo aver percorso a vela un giro e mezzo del mondo senza scalo in solitario, arriva a Tahiti. Fabio Fiori l’ha raccontato a wikiradio, a cura di Loredana Rotundo, con Antonella Borghi, Lorenzo Pavolini e Roberta Vespa.

 

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