ARTURO: Da un cantiere all’altro
Racconti dal pozzetto di Tony Coppi – 6
MAGGIO 2022
La mattina seguente verso le nove, dopo una ricca colazione, salpiamo l’ancora e mettiamo la prua su Knidos, la città romana le cui rovine segnano il limite occidentale della lunga penisola della Dacia. Dei suoi due porti: quello delle trireme da guerra a Nord e quello commerciale a Sud dello scosceso omonimo capo, solo quest’ultimo è agibile, prestando attenzione ai moli parzialmente sommersi. Lo splendido panorama delle rovine della antica città, con le colonne della agorà e i resti del teatro, affacciati sul porto, rendono affascinante questo ancoraggio, che il tramonto tinge di un rosa intenso.
Giovanni e Mario come al solito, dopo oltre quaranta miglia (CMG) di bella vela, si tuffano per rinfrescarsi.
Stasera spaghetti al tonno.
Dopo cena, controllata la tenuta dell’ancora, perché qui il fondale è buon tenitore solo se si conosce dove dare fondo, in pozzetto sorseggiamo un raki Tekirdag – costoso ma eccezionale – e Giovanni mi chiede:
“Allora il cantiere La Bussola ha poi fatto i lavori sull’Arturo?”
Si, il cantiere ha fatto la sua parte. Il capocantiere ha ripristinato e in parte sostituito fasciame, ordinate e flessibili, torello e contro torello, tutta la struttura della coperta e del pozzetto, a partire dai bagli fino ai listelli e comenti della coperta. Della costruzione originale del 1938, oltre allo scafo, ho salvato solo quattro oblò in bronzo massiccio, il bel tavolo della dinette e la chiesuola della bussola, un vero cimelio. Ho conservato anche la zavorra in ghisa (il piombo era stato requisito per le munizioni dell’ultima guerra) e i due alberi, il maestro in buone condizioni, il trinchetto con la sostituzione della parte superiore, imparellata a dovere da uno specialista che realizzava gli alberi a colpi di pialletto.
Vi assicuro però che anch’ io ho fatto la mia parte. Intanto la progettazione della tuga e quella degli interni, quotati con esattezza lungo le pareti ricurve dello scafo, per creare due cabine, il bagno, la zona carteggio e le cuccette, di dimensioni generose per vivere la barca nei migliore dei modi. Senza parlare della riprogettazione della timoneria e la realizzazione ex novo dell’impianto elettrico, con canaline separate per i cavi delle due polarità, fissate sotto il dormiente Tutti i fine settimana e parte delle mie ferie passate a fare l’operaio, il progettista, il meccanico e qualche volta il ragazzo di bottega!
Mia moglie mi accompagnava a Fiumicino e passeggiava le mie due bambine: una di pochi mesi in carrozzina e l’altra per mano, avanti e indietro lungo la riva sinistra del Tevere, dal paese al cantiere e viceversa…..
Ricordo alcuni particolari, come il rompicapo di riuscire a portare il comando del timone in pozzetto per applicare una comoda colonnina. L’asse del timone non era dotato di settore circolare, ma di una corona dentata, sulla quale la ruota lavorava direttamente tramite ingranaggi: il tutto montato in una cassetta di legno in coperta a poppa del pozzetto, molto scomoda da governare. Mi consultai con il mio amico.
Luciano, titolare di una officina meccanica a Maranello, dove passavo parte delle ferie estive nella casa di famiglia. Ne uscì un marchingegno incredibile: una gabbia metallica con quattro rinvii azionati da braccetti snodabili a testa sferica (non ci crederete, ma erano quelli usati per le sospensioni delle Ferrari F1!) che lavoravano su una piastra a T., il tutto da montare sottocoperta. Collegati al T dei lunghi frenelli in acciaio e la classica catena galles arrivavano alla ruota dentata della colonnina, piazzata finalmente in pozzetto davanti alla seduta di poppa.
Di come modificammo il piano velico con il mio amico Carlo Giordano, ingegnere della Vasca Navale di Roma vi ho già raccontato. Potrei proseguire per ore, ma vi faccio grazia dei particolari.
Il varo del ricostruito Arturo, splendido nella sua nuova veste, armato a schooner con vele in dacron realizzate da Puosi a Fiumicino, randa aurica con picco sul trinchetto, uccellina, fiocco murato in prua e yankee sul bompresso, fu un evento eccezionale.
Avevo persino montato un verricello elettrico in sostituzione di quello manuale, spesa anticipata dal mio socio, che poi rifusi a rate…
Il viaggio inaugurale lo facemmo all’Elba, ma nei fine settimana successivi portammo la barca in giro per l’Italia lungo le coste tirreniche, da nord a sud, lasciandolo di volta in volta in porti diversi. Ricordi di quelle piccole navigazioni ne ho tantissimi. Uno per tutti: a Giannutri – isola all’epoca parco nazionale e disabitata, ad eccezione di un residence estivo – a fine ottobre con i soliti amici arrivammo nella insenatura sud, dove una piccola banchina consentiva l’ormeggio per il residence. Una brezza leggera ci arrivava da poppa, e avremmo dovuto accostare a motore. Poiché non pensavo che qualcuno ci potesse vedere, decisi di fare una prova. Ricordando come facevo con le derive, misi la prua al vento. Chiesi a Massimo di spingere in avanti a dritta il boma della randa maestra e a Giovanni di fare lo stesso a sinistra con quello della randa aurica, controventando le vele. Regolando la inclinazione dei due boma la barca cominciò a retrocedere lentamente e arrivammo in banchina senza accendere il motore. Lasciate libere le vele e passata in bitta una cima a prua, la barca accostò dolcemente. Ci stavamo congratulando tra noi della bella manovra, quando vedemmo scendere di corsa dal viottolo, che in salita conduceva al residence, una persona che gridava. Io pensai che ce l’avesse con noi perché l’attracco era vietato. Neanche per sogno: “Siete figli di marittimi ” ci gridava. Io non capivo e mi preparavo a rispondere a degli insulti!, ma lui, arrivato in banchina ci prese la cima di poppa e la fissò alla bitta, continuando a ripetere “Siete figli di marittimi” e poi “ Qui nessuno ha mai fatto una manovra così. Bravissimi”
Solo il padre di Giorgio – ammiraglio – era un “marittimo”. Il mio e quello di Massimo erano terrazzani, che forse non erano mai stati su una barca, a vela, a motore o a remi. Per il mio garantisco!
Ci invitò a cena al residence, chiuso da oltre un mese, dove lui stava da solo. Ci cucinò al forno una bellissima cernia, che aveva pescato il pomeriggio precedente, e chiacchierammo piacevolmente per qualche ora, sorseggiando una delle mie ultime bottiglie rimaste in cambusa.
E’ stata la prima e l’ultima manovra di quel genere che ho mai avuto occasione di fare, anche perché le banchine oggi sono tutte affollatissime, e magari la fortuna potrebbe non assistermi più!
In quei quattro anni di cantiere successero molte cose, ma le due più importanti furono che mi innamorai della cantieristica e che con l’amico Dino Reggiani nel 1976 andammo a Malta per prendere dalla agenzia “Cassar & Cooper” l’esclusiva delle bandiere ombra maltesi……
Io conoscevo già l’isola per esserci andato in tourné per un mese nel 1963 come presentatore e primo burattinaio con l’Opera dei Burattini di Roma della signora Signorelli……avevo 22 anni, e fui ospite della prima televisione maltese. Era l’anno dei movimenti indipendentisti che volevano liberarsi del giogo britannico, un ambiente giovane ed entusiasta che mi faceva immaginare i movimenti carbonari del nostro Risorgimento. (Malta ottenne l’indipendenza il 21 settembre del 1964).
Della nostra idea delle bandiere ombra rimase poi solo un conto congiunto aperto in dollari a Malta (non in sterline maltesi i cui cambi erano molto variabili) e di cui cedetti la mia parte a Dino a conclusione dei lavori dell’Arturo; ma la mia passione per la cantieristica rimase in fondo alla mia mente fino a che, dopo l’Alitalia e l’Armando Curcio Editore la mia carriera da dirigente mi portò in Umbria, come direttore marketing di una media azienda metalmeccanica.
Nell’intervallo tra il lavoro a Roma e quello in Umbria mi presi tre mesi sabbatici e presentai un progetto ad Andrea Barbato, allora direttore del TG2, che lo approvò e mi mise a disposizione i mezzi e la troupe per realizzarlo. Nacque così il programma: “La vela, un pianeta a misura d’uomo” che fu poi trasmesso in dieci puntate di mezz’ora prima del TG2 a partire da i primi del 1978, con un indice di ascolto eccezionale per i tempi (1.800.000), anche perché era una delle prime trasmissioni a colori.
Giovanni mi chiede: “Ma lo possiamo ritrovare?”
“Certo” gli rispondo “io ho la copia di tutte le puntate. Erano state girate in pellicola a16 millimetri, poi montate. Su quel montaggio io scrissi i testi, poi furono riversate in Ampex. Qualche anno dopo me ne feci fare copia in cassette Beta. Infine vent’anni dopo me le feci trasferire su cd. È una lunga storia, che vi racconterò un’altra volta”
“Le possiamo vedere?”
“Certo, quando passi dalle mie parti vieni a studio…”
Questo trasferimento di residenza fu cosa molto complessa e tra l’altro ridusse di molto le mie avventure veliche. Così, dopo non pochi tentennamenti e resistenze da parte del mio socio, decidemmo di vendere la barca alla quale avevo dedicato una non piccola parte della mia vita.
Lavorare in Umbria alla fine degli anni 70 significava lottare contro una diffidente mentalità artigianale, che solo allora cominciava ad aprirsi alle nuove tecnologie gestionali. Dopo quasi quattro anni di lavoro – spesso non felice – e di una felice amicizia con il commercialista della azienda, Claudio Giglioni (che fu anche mio coequipier sull’Arturo in quell’ultimo anno di discussioni con il mio socio per la vendita della barca) decisi di aprire un cantiere navale sul lago. A Claudio e alla sua disinteressata e vera amicizia devo molto, come racconterò in seguito.
Così all’inizio del 1980 nacque la Cantieri del Trasimeno srl, con sede nel capannone della Provincia a Passignano sul Trasimeno. Il capitale a mia disposizione erano i trentuno milioni della liquidazione…. Feci un accordo con i dirigenti della Provincia e della Navigazione del Lago: non avrei pagato alcun affitto, ma mi impegnavo a far lavorare una cooperativa di giovani, appena costituita dopo un breve tirocinio presso il cantiere Gilardoni sul lago di Como.
Mi recai a Crema, dove i cantieri Alpa di Cattadori, che erano in fase di concordato preventivo, avevano prodotto il bellissimo 12,70 disegnato da Sparkman e Stephens per un sindacato di 11 acquirenti. Il Sindacato Pierobon, formato da alcuni tra più noti nomi dell’epoca (per citarne alcuni : Marina Spaccarelli Bulgari – la barca comandata da Straulino – l’ammiraglio Notarbartolo, l’industriale Soldini, padre di quel famoso Giovanni Soldini che ha partecipato da protagonista a molte regate transoceaniche) aveva in mente di creare una level class, cioè un monotipo per regatare solo tra barche uguali.
Acquistai gli stampi e i diritti del 12,70, che era stata dunque la più rinomata barca di quel cantiere, e feci fare una prima stampata dello scafo, che portai sul lago Trasimeno. Qui incominciai a riprogettare la coperta, di cui feci distruggere lo stampo (purtroppo!) per creare un nuovo prototipo che avesse le linee d’acqua originali ma forme più agili e più in linea con i tempi.
Così dovetti incominciare dallo scheletro – la ossatura della coperta – facendo realizzare i bagli e la struttura portante della tuga e del pozzetto in alluminio, ognuno con curvatura diversa. Acquistai fusti di vetroresina, gelcoat e tessuto di lana di vetro di varie grammature, per realizzare il prototipo della coperta, per poi creare lo stampo per la produzione dalla nuova barca, che chiamai CT 43 Hunraken.
Ci provai, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo non il mare, ma l’oceano!
Intanto la poca esperienza dei giovanotti della cooperativa, che tra l’altro in mia assenza mescolarono alla vetroresina la sabbia, per fare l’antisdrucciolo, quando non avevano ancora cominciato a posare il primo strato di mat…..Poi, se serviva una vite o un perno in acciaio inox o un qualsiasi attrezzo speciale, dovevo prendere la macchina e andare a Fiumicino, perché all’epoca forniture nautiche in zona per barche grandi non esistevano….
Avevo lasciato il lavoro e quindi i soldi scarseggiavano.
Dopo un paio di mesi di sofferenza, spese e inc….zature presi il coraggio a quattro mani.
Vendetti il prototipo in costruzione e il resto del materiale a un architetto napoletano, e restituii il capannone alla Provincia.
Avrei potuto così chiudere in perdita l’avventura e cercarmi un altro lavoro da dirigente, in qualsiasi città di Italia. Ma sono testardo e quando inizio qualcosa la devo portare a termine. La casa dei nonni era a Marina di Massa, a pochi chilometri da Viareggio, l’area più popolare per la cantieristica da diporto. Presi la mia decisione. Inviai la stampata dello scafo e i disegni della coperta ad una azienda di Ventimiglia che, per dieci milioni del 1980, si impegnò a realizzare prototipo e stampo. A Viareggio cercai un capannone e un falegname a cui affidare la realizzazione degli interni.
Mi fu presentato un certo Sc….., che mi disse di avere a disposizione un grande capannone appena fuori Viareggio, davanti al casello dell’autostrada, dove avrebbe ospitato lo scafo per eseguire i lavori di falegnameria. Feci con lui un primo accordo e me lo portai a Ventimiglia per realizzare e resinare le paratie, prima di assemblare la coperta con lo scafo.. Devo dire che il lavoro non fu realizzato al meglio (scoprii dopo che le paratie per non segnare lo scafo devono essere applicate su un cuscinetto di pochi millimetri in airex, resinato prima di calettare le paratie) per cui incominciai a nutrire dubbi sul falegname carrarino, che in realtà era un carpentiere.
Quando lo stampo della coperta fu finito feci subito realizzare una prima stampata. La feci poi fissare e incollare sul guscio e il primo CT43 nel mese di giugno arrivò a Viareggio con la scorta di due motociclisti della Stradale. Appena la gru la scaricò dal trasporto eccezionale ponendola sul suo invaso, fui preso da un momento di vera felicità, vedendola troneggiare al centro del capannone. Uno dei tanti momenti entusiasmanti di quegli otto anni, che da un lato ricordo come i più gratificanti della mia vita, ma dall’altro furono i più pieni di difficoltà e di pesanti problemi.
Poiché Ventimiglia era lontana, per abbattere i costi del trasporto feci un accordo per effettuare le successive stampate con il cantiere Catarsi (il produttore del noto Calafuria) e inviai gli stampi del guscio e della coperta a Cecina.
Mi feci fare il piano delle attrezzature di coperta da Barbarossa, il progetto della timoneria alla Solimar di Orione Samorì (anni dopo scoprii che era amico di Gardini e fornitore dei Moro di Coppa America), dalla Nemo di Sarsina acquistai oblò, falchette, passi d’uomo etc, perché volevo presentare la barca al il Salone Nautico di Genova dell’ottobre del 1980.. L’albero fu prodotto dalla Sorimast dell’amico Franchetti a Genova.
Commissionai a ditte locali il quadro elettrico (Elettromeccanica Balducci) pulpiti e serbatoi in acciaio inox ai fratelli Pignati; ma il carpentiere non portava avanti il lavoro e quel poco che faceva non mi soddisfaceva.
Un giorno che ero in cantiere da solo (lo Sc….. mi aveva dato le chiavi) vedo arrivare una Rolls Royce che si ferma sul piazzale. Ne scende un signore in pantaloni e giacca bianca, che mi sembra di avere già visto. Entra e mi chiede:
“Scusi, cosa fa lei nel mio cantiere?”
“Come il suo cantiere? Non è dello Sc….?
“Dello Sc….? Scherza? Lui ha le chiavi perché mi fa qualche lavoretto”
Apre la porta dell’ufficio di uno dei due locali adiacenti al magazzino separati da una vetrata dal resto del capannone. Io su indicazione dello Scaletti mi ero sistemato in quello accanto, che non era chiuso a chiave.
“Si accomodi che ne parliamo”
Ci presentiamo, lui era Uccio Carminati, che anni prima aveva la concessione per la riscossione dell’IGE a Roma (se non ricordo male), e che avevo incontrato una volta a Fiumicino nel Cantiere Capotondi, quando stavo acquistando l’Arturo.
“Da quanto è qui?”
“Dai primi di giugno”
“Guardi, se vuole rimanere qui, a trattarla proprio bene, mi darà un milione al mese.”
“Quanto?!!!!” Una tranvata da ridere…..
“Un milione. Uso delle macchine compreso. Uso dell’ ufficio – che vedo che ha già occupato – compreso. E le abbuono il mese passato”
A questo punto gli racconto un poco delle mie vicissitudini, facciamo una chiacchierata di una oretta. Gli spiego che il mio è un tentativo azzardato, una avventura un po’ folle, ma nella quale ormai sono così invischiato che non ho altra scelta che proseguire.
Gli faccio una proposta:
“Mi lasci arrivare fino al Salone di Genova. Se tutto va bene e porto a casa qualche ordine le darò quello che chiede. Se va male trovo un altro posto, oppure chiudo”
“E quanto mi darebbe per i prossimi tre mesi?”
Azzardo:
“Cinquecento. Di più non posso, devo pagare i fornitori con gli ordini già effettuati e gli acconti versati.”
“Uccio mi guarda, si fa una risata e mi dice:
“Vediamo questo milione e mezzo anticipato per i tre mesi…. A fine ottobre ne riparliamo”
Ero appena diventato titolare della prima sede operativa dei Cantieri del Trasimeno a Viareggio.