Mamaroa parte 6
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MAMAROA ED IO
Arrivo
Il giorno dell’arrivo ci è piombato addosso all’improvviso, quasi inaspettato, ed ha turbato il sereno equilibrio che avevamo ormai raggiunto tra noi, la barca e il mare. Da una parte è stato bello il momento alle 07,00 del mattino del 18 dicembre 1974, quando la sommità della montagna Pele (la cima più alta della Martinica) è comparsa all’orizzonte quando e dove doveva comparire, premiando così il lavoro svolto per una navigazione precisa.
D’altra parte però quella terra in vista significava che eravamo alla fine di qualcosa che Annette ed io avevamo desiderato ed avuto con determinazione, e questo dava gioia e tristezza insieme, come tutte le cose belle quando inesorabilmente finiscono.
Il punto con il sole del giorno precedente ci collocava a 120 miglia dalla punta Sud della Martinica e sarebbe bastato questo punto a consentire un buon atterraggio. Per una maggiore precisione effettuai anche due punti stellari al tramonto del 12 dicembre ed all’alba del 18 (immediatamente prima di avvistare la costa) ma torno a dire che questi punti stellari non sono essenziali, il Sole è già più che sufficiente.
Volendo, avrei anche potuto utilizzare il radiofaro aeronautico di Fort de France, ma preferii tenere da parte il radiogoniometro (Io avrei acceso in caso di necessità) e godermi l’atterraggio con il solo sestante. E poi i segni dell’avvicinamento della terra sono tanti, per esempio i gabbiani (anche se il primo che abbiamo incontrato, con una lunga coda bianca e subito definito “gabbiano a lungo raggio” era ad oltre 800 miglia dalla costa), i cumuli che si formano nelle ore calde sui rilievi montuosi (a causa del sollevamento forzato delle masse d’aria umide provenienti dal mare) ed il colore dell’acqua che diventa più chiaro arrivando sulla piattaforma continentale da cui emergono le piccole Antille.
Avvistata terra, svegliai Annette (quella notte avevamo invertito i turni di guardia, dal momento che all’alba dovevo essere sveglio per il punto con il sestante), partì il tappo della bottiglia di Moèt & Chandon che avevamo da parte per l’occasione.
Eravamo un po’ su di giri per tutto quello champagne a stomaco vuoto, a poco a poco il profilo della costa si delineava, verso mezzogiorno eravamo ormai a poche miglia dall’estremità sud della Martinica, e l’isola era meravigliosa con tutto quel sole, con tutte le sfumature di verde immaginabili, il mare verde-azzurro e le palme lungo le spiagge.
Prima di doppiare il capo siamo entrati in una specie di “campo minato” costituito da centinaia di piccoli galleggianti collegati a delle ‘nasse per la pesca delle aragoste, ed Annette è dovuta restare a lungo a prua per indicarmi la strada e dopo 25 giorni (una media giornaliera di 120 NM per coprire le 3000 miglia), ho ripreso in mano la barra del timone, ed ho tolto i due tangoni.
Passati al traverso del capo alle 14,00, nei pomeriggio abbiamo risalito la costa sottovento dell’isola di bolina larga, ci siamo concessi una doccia con acqua dolce ed uno shampoo ai capelli, c’erano tante piccole incantevoli baie ben ridossate dove avremmo voluto fermarci, ma a Fort de France c’era la posta e poi volevamo avvertire dell’arrivo i nostri cari.
Al tramonto Mamaroa entrava nella grande baia di Font de France accolta oltre che dalle luci e dal rumore della città (il traffico ed il suono dei clacson portato dal vento) anche da un rovescio di pioggia tipo diluvio; dopo aver percorso le ultime miglia a motore con una visibilità pessima per la pioggia, alle 19,40 entravamo nel porto ed ormeggiavamo vicino ad un peschereccio.
Il caso ha voluto che l’equipaggio di quel peschereccio fosse… spagnolo delle Canarie (residenti da qualche anno in Venezuela, erano lì per una campagna di pesca). Abbiamo stappato un paio di bottiglie di vino rosso della loro terra, e questo è bastato per generare una… reazione a catena, ci hanno dato parte della loro cena (una favolosa insalata di patate ed aragosta) un paio di caffè, alcuni pesci ed una stretta di mano, calda e sincera come tutto quello che unisce gli uomini che amano il mare.
Più tardi, dopo aver fatto quattro passi sul molo, per controllare se sapevamo ancora… camminare, ci siamo addormentati (l’ufficio postale era chiuso, bisognava aspettare l’indomani).
Mamaroa era immobile, nello specchio d’acqua calma del porto, e c’era nell’aria, dopo la pioggia, l’odore inconfondibile della terra bagnata, della nostra madre terra.
SOPRAVVIVENZA IN OCEANO
La perdita dell’albero, del timone, o perfino di un uomo in mare, emergenze tali da impedire, alla barca di arrivare prima o poi da qualche parte.
Invece la perdita della barca, a causa di una via d’acqua non riparabile, comporta nella maggioranza dei casi, in oceano, anche la perdita di tutto l’equipaggio. Dico questo non per spaventare, ma per sottolineare ancora quanto siano importanti per una barca che attraversi l’oceano la robustezza e l’integrità dello scafo e le valvole di sicurezza su tutte le prese a mare.
Per la sopravvivenza in oceano comunque, disponevamo di una zattera autogonfiabile a 4 posti, a cui avevamo collegato una tanica d’acqua da 10 litri, oltre ad un po’ di materiale per la pesca, ma vi assicuro che ho preso questi accorgimenti con poca convinzione. Infatti, in caso di perdita della barca, potevamo sperare di salvarci con la zattera nell’ultima parte del viaggio, diciamo nelle ultime 500 miglio, oppure all’inizio, qualora avessimo avuto la fortuna di atterrare sulle Isole di Capo Verde.
Ma in peno oceano, le possibilità di sopravvivenza sarebbero siate pressoché nulla, e la zattera avrebbe soltanto prolungato la nostra agonia, a meno che si fosse verificato l’impossibile. A volte accade anche questo, per esempio quella possibilità su un miliardo di incontrare un’altra barca, oppure una nave nei rari punti (due o tre) dove le rotte commerciali (scarsamente frequentate) dirette dal Nord America verso il Sud Atlantico attraversano quella zona– di oceano.
Non cambierebbe qualcosa, credo, la presenza a bordo della famosa “radiotrasmittente” sempre a causa della solitudine di quei mari, a parte poi la difficoltà di trovare un puntino di pochi metri quadrati nella sconfinata immensità dell’oceano. E poi, se la barca affonda si porta giù anche la bellissima radio, – e se invece la barca non affonda, anche se diventa una specie di pontile galleggiante, arriva sempre dall’altra parte, è solo questione di tempo e quindi di viveri (soprattutto di acqua) più che di radio. Credo quindi che la presenza di una radio trasmittente non sia giustificata su una piccola barca che attraversi l’oceano nell’aliseo, e che anzi sia controproducente, in quanto induce psicologicamente a contare su un aiuto esterno che non arriverà mai.
In conclusione, si può affermare che mentre in una traversata nell’aliseo c’è rimedio a qualche avaria, purché si abbiano adeguate scorte di attrezzature, viveri ed acqua, in caso di perdita della barca le possibilità di sopravvivenza sono poche, e diventano quasi nulle nella parte centrale del viaggio.
UN PO’ DI MEDICINE
Consiglio il libro “Il medico a bordo” della collana di Mauro Mancini. E’ una semplice guida, in cui, in base ai sintomi accusati, e’ indicata la cura più adatta. La farmacia di Mamaroa, preparata in base alle indicazioni di questo libro, in due scatole, la prima con medicine di uso più corrente, la seconda per i casi più gravi.
1^ scatola
Antidolorifici: Dolviran, Nisidina (dolore in generale), Optalidon, Spasmoplus, Soma Complex, Seridon, Cibalgina, Doloran, Kerasalicil, Aspirina, Veramon, Alka-Selzer
Pomate: HEC (Emosttlica), lstamile linimento (dolori reumatici ecc’), Lasonil (contusioni), Balsamo Sifcamina (Antalgico), Ecoval 70 (dermati), AlgesaI (Balsamo antireumatico), creme antisolari, e per la cura delle scottature solari, di vario tipo . Varie: rease diaree- balsamo Tigre (dolori muscolari), Etonina (sciroppo tosse), lraseptic (gengiciti), Localvn (gocce auricolari), Stilla, (occhi irritati), Rinnecidina Valeas e Rimofluimuncil (raffreddore), ovatta, garza, bende, alcool
2^ scatola
Cloruro di Etile (Anestesie locali) – Coaguleno (siringhe emostatiche, per bloccare emorragie) – Laccio emostatico – fascia elastica per immobilizzare arti fratturati e relative stecche di legno -1 bisturi -Band Aid (cerotti speciali che sostituiscono i punti metallici per suturazione ferite) – Acquaclene (disinfettante acque inquinate) – Cavit W (per curare provvisoriamente un dente cariato – ferri Demertella – chemicitina (vari tipi di infezioni, comprese quelle dell’apparato digerente causalo da cibi in scatola avariati) – <CVP-duo -Clorochina Rayer (Malaria) – Sparna (Coliche renali) – Paneroflat (Insufficienza pancreatica) – Farmidone (malattie flogistiche) – Microren gocce (malattie polmonari e cardiache) glucaven 250 (aumento acutezza mentale).
Naturalmente, anzi, fortunatamente, di tutte queste medicine abbiamo usato solo qualche aspirina!
COME SI CUCINA IN PIENO OCEANO
Ecco alcune note sulla cucina, preparate da Annette, che è stata molto brava nel trasformare a volte Mamaroa in un raffinato ristorante galleggiante italo – francese.
- Soupe à l’oignon (generalmente si prepara la sera, col fresco) far rosolare 4 cipolle grandi, tagliate finemente, in una grossa noce di burro, Aggiungere quindi un litro scarso di acqua dolce fredda, sale e pepe e mescolare ogni tanto. Quando l’acqua bolle, aggiungere 100-150 gr. di gruviere o emmenthal grattugiato; mettere in ogni piatto del pane abbrustolito e versare sopra il preparato, spolverando ancora con formaggio grattugiato.
- Pasta: al sugo di pomodoro – all’arrabbiata (sugo con peperoncino), alla carbonara (con pancetta sotto sale, comprata a Las Palmas, che sí conserva indefinitamente, oppure anche con prosciutto crudo in busta).
- Riso: Al sugo di pomodoro – ai funghi con piselli in scatola – Risotto alla milanese (il parmigiano in bustina sotto vuoto come l’emmenthal e il gruviere, si conservano bene in un posto fresco).
- Insalata di riso Nicoise (preparata in anticipo in caso di tempo cattivo, si conserva a lungo): mescolare riso bollito, tonno in scatola, uova sode, patate bollite tagliate a dadi, olio, aceto, sale, pepe, olive, maionese, alici sott’olio.
- Pesce: a seconda che prendevamo alla traina una lampuga, o un piccolo tonno sui 3-4 k., (quelli più grossi si portavano via amo, filo ecc,), dopo averli vuotati delle interiora:
- Lampuga bollita (in acqua di mare), circa 15′, poi togliere la pelle e condire con olio, limone o mayonnaise. Contorno: patate bollite (sempre in acqua di mare) ripassate in padella con burro, sale e prezzemolo,
- Lampuga fritta: togliere la pelle, tagliarla in 4 filetti (buttando via testa e spina dorsale), salare e passare in farina e friggere con olio a fuoco medio, Contorno: patate fritte, sale, prezzemolo.
- Tonno “a la provenzale”: tagliare il tonno a trance e salarne ognuna. Fai scaldare un po’ d’olio in padella, aggiungere aglio tagliato molto fine, una scatola di pomodori pelati, sale, pepe, prezzemolo e fare cuocere 10′ a fuoco lento. Aggiungere le trance di tonno, e quando il pesce é quasi cotto aggiungere un bicchiere di vino bianco secco, spolverare con “herbes de provence” (o rosmarino) e servire con un contorno di verdure cotte all’agro (fagiolini o spinaci in scatola),
- Pesci volanti: possono essere preparati, come la lampuga, bolliti o fritti nel Carne in scatola: Tipo “Simmenthal”, all’insalata con olio e limone e contorno di patate bollie.,
- Flambergers in scatola: fritti in padella, con ketchup,
- Wurstel: fritti, oppure bolliti in acqua di mare, con mostarda forte,
- Jambonet: tagliato a trance, e fritto (con pangrattato) in padella,
- Uova: oltre al rivestimento in vasellina, una volta alla settimana, capovolgere
tutti i contenitori, in modo che la bolla d’aria nell’interno delle uova si sposti, aumentando così la conservazione. In quella occasione, si ripulivano anche le cipolle e le patate in infiorescenza e si eliminavano le eventuali mele e limoni sul punto di guastarsi),
Da preparare: Strapazzate (con il latte a lunga conservazione), al tegame, come omelettes (con patate, funghi, spinaci in scatola, cipolle, “fines herbes”) oppure nel seguente modo:
- “Piperade” (piatto francese della provincia basca): cuocere in una padella con olio, una scatola di pomodori pelati, aglio, sale, molto prezzemolo tritato fine, Cuocere a parte una scatola di peperoni verdi con olio, sale, pepe e un peperoncino forte: cuocere infine nella omelette, unire il tutto e servire caldo,
- Frutta: mele e banane, Oltre che al naturale, abbiamo mangiato le mele troppo mature, dopo averle bollite, con lo zucchero. Qualche volta, invece, tagliate a pezzetti con vino rosso e zucchero, ottima macedonia.
- Oppure di sera fa molta scena:
“Banane Flambèes“: fare scaldare un po’ di burro in una padella, aggiungere le banane tagliate in due nel senso della lunghezza, cospargendole di zucchero. Quando sono ben dorate da una parte e dall’altra aggiungere un po’ di cognac o whisky ed accendere,
- Dolci: Non ci piacciono, soltanto qualche volta abbiamo preparato del riso bollito in poco latte, con vaniglia e marmellata.
- Oltre ai viveri elencati nell’ultima puntata, avevamo a bordo le seguenti spezie e condimenti, in barattoli di vetro allineati sulla mensola sopra la cuccetta di dritta:
- noce moscata, vaniglia, zafferano, prezzemolo, aglio, herbes de provence, rosmarino, fines herbes, funghi secchi, mayonnaise, mostarda forte (Dijon), tabasco, cellery, ketchup, peperoncini, pepe e sale (grosso e fine), aceto, farina, zucchero, caffè, thè,
CON IL SOLE E IL SESTANTE FINO ALLE ANTILLE
L’uso del sestante non è un privilegio di pochi, facendo pratica chiunque può diventare un buon navigatore. Ecco una spiegazione per usare lo strumento in modo semplice
In questo articolo, desidero, come argomento conclusivo sulla traversata, proporvi il sistema da me adottato per fare il punto con il sole, ed accennare alla fine dell’itinerario percorso da Mamaroa nel Mare dei Caraibi, argomento che svilupperò in seguito.
L’esempio di calcolo che descriverò è rivolto soprattutto a chi possiede già una certa conoscenza del problema; spero però che la grande semplicità di questo metodo stimoli anche chi è completamente a digiuno di navigazione astronomica ad iniziare ad appassionarsi ad essa. Come già detto a proposito della navigazione stimata, e della navigazione con i fari ed i radiofari, rimando il lettore per tutto quanto non posso, per ragioni di spazio, ricordare qui, alla lettura del libro di Mary Blewitt “Piccolo manuale di navigazione da diporto”, Ed. Mursia il quale, tra i tanti buoni testi disponibili sul mercato, si distingue per chiarezza e semplicità.
Che cosa fare, dopo l’arrivo?
Dal 19 al 31 dicembre 1974 Mamaroa è rimasta ferma a Fort de France. Dopo due-tre giorni di relax, impegnati soprattutto a scrivere e ricevere telegrammi, lettere e telefonate, e guardarci un po’ intorno per scoprire il piacere di essere di nuovo tra la gente, Annette ed io abbiamo dovuto prendere una decisione importante.
Infatti l’entusiasmo per la traversata riuscita così bene ci aveva fatto accarezzare un progetto decisamente ambizioso, quello cioè di ripartire ai primi di Gennaio per le Bermude, circa 1000 miglia verso Nord, per entrare nella zona dei venti costanti da Ovest e da lì attraversare nuovamente l’oceano dirigendo sulle Azzorre, infilare quindi lo stretto di Gibilterra e tornare a casa.
Confesso che la tentazione di ricominciare a correre con Mamaroa davanti al vento, e riprendere il ritmo interrotto, era grande, ma alla fine il buon senso ha prevalso. Anzitutto una traversata del Nord Atlantico in pieno inverno e con il grande freddo poteva riservare grossi dispiaceri per una barca piccola come la nostra, con il bordo libero basso e con un equipaggio ridotto.
Infatti, pur con il vantaggio di prendere l’inevitabile cattivo tempo in poppa (lo spostamento delle depressioni nel Nord Atlantico è sempre da Ovest verso Est), bisogna considerare che una tempesta invernale in quei mari sarebbe potuta durare più giorni, costringendoci ad estenuanti turni al timone (non me la sarei sentita di affidare la condotta della barca, con un mare che frange di poppa, al timone a vento, che è bravissimo, ma non ha gli occhi per guardarsi alle spalle). E poi le Antille ci sarebbero rimaste sconosciute, ed invece lì il sole era caldo e la gente ospitale
Ed infine questo ipotetico ritorno in quella stagione avrebbe dato al nostro viaggio il sapore di una sfida al mare, cosa che non volevamo, poiché sappiamo tutti che il mare è infinitamente più forte di ciascuno di noi, e non serve trasformarlo in una specie di palestra dove misurare la propria presunzione. Volendo, si può andare (quasi) dappertutto, ma con la barca adatta e poi almeno al nostro livello occorreva rispettare le regole del gioco delle stagioni.
Se avessimo avuto tempo fino a luglio, allora Sì, avremmo fatto il nostro giro per le Antille, e poi saremmo ripartiti in Aprile, risalendo con il Sole alle latitudini dei venti da Ovest, per attraversare in maggio-giugno, quando il Nord Atlantico diventa più tranquillo e fa più caldo, ed arrivare in Mediterraneo in piena estate.
Ma noi invece dovevamo essere in Italia entro il 31 Marzo, quindi accantonammo definitivamente il progetto, e poiché occorreva circa un mese di tempo per il rientro di Mamaroa (cioè 20 giorni di viaggio sulla nave da Fort-de-France a Marsiglia, più almeno 10 giorni per riarmare la barca a Marsiglia e fare il trasferimento all’Argentario), risultò che ci restavano a disposizione i due mesi di gennaio e febbraio per visitare le Antille.
Decidemmo di sfruttare al massimo questo tempo, cercando di toccare nel nostro viaggio tutte le piccole Antille (circa 40 isole, senza contare gli isolotti disabitati); per non dimenticarne neanche una, occorreva percorrere in totale circa 2000 miglia. Dedicammo quindi una decina di giorni (21-31 dicembre), con una pausa di riposo il giorno di Natale, alla preparazione della crociera ed all’organizzazione del ritorno (accordi con l’agenzia che si occupava della spedizione, la nave partiva il 28 Febbraio, acquisto di una invasatura per il trasporto, acquisto di alcune carte nautiche che mi mancavano, riassetto completo della barca e controllo dello stato delle attrezzature) e finalmente il 1° Gennaio, dopo aver trascorso la notte di fine d’anno ospiti del Club Mediterranee, partimmo dalla Martinica.
In 50 giorni, con una media di due ancoraggi al giorno e toccando quasi ogni giorno un’isola diversa, portammo a termine la crociera prevista. Alla fine eravamo un po’ stanchi per quel ritmo sostenuto, ma il 21 Febbraio 1975 Mamaroa era di nuovo a Fort de France, per prepararsi all’imbarco sulla nave (che doveva avvenire il 26 Febbraio).
Adesso vi racconto questa bella esperienza di viaggio in uno dei mari più belli e più ricchi di tradizioni e di storia che esistano al mondo.
2000 MIGLIA NEI CARAIBI UN’ISOLA AL GIORNO
A zig zag tra i coralli affioranti delle Antille, all’insegna dell’avventura:
i tranelli delle carte nautiche, le visite dei ladri isolani, le sorprese di Mamaroa,
E tanto tanto rum
Geograficamente le piccole Antille costituiscono una omogenea catena di isole, disposte meravigliosamente ad arco tra Portorico e l’estremità nord-orientale del Venezuela, e chiudono ad Est il mare dei Caraibi, separandolo dall’Oceano Atlantico.
Le condizioni di vento, visibilità, mare e clima sono ideali, a causa del flusso perenne dell’aliseo di NE, Il tempo è molto più stabile che nel Mediterraneo, e praticamente nella buona stagione si è al riparo da sorprese. Nel periodo estivo invece (Giugno-Novembre) c’è il pericolo che le isole siano investite da qualche ciclone tropicale (ne abbiamo parlato nella puntata introduttiva), ed una barca che volesse navigare in quella stagione deve prendere le opportune misure per garantirsi un rapido ricovero in un ridosso adatto (in inglese si chiamano “Hurricanes holes”) nel caso che la radio annunci un avviso di ciclone. Occorre anche ricordare che un europeo ha bisogno di qualche giorno per acclimatarsi, poiché l’ambiente, il tipo di vita, il caldo umido, rendono quel mare completamente diverso dal Mediterraneo.
Il pilotaggio tra le isole richiede attenzione, a causa della presenza di bassi fondali, costituiti soprattutto da barriere di corallo. Per la scelta del percorso da seguire per raggiungere un ancoraggio, è stata per noi spesso preziosa la guida di Donald M. Street. Occorrono inoltre carte dettagliate (con scale superiori a 1/100,000), e dove queste indicano formazioni di corallo (“Reef’ in inglese) occorre procedere molto attentamente.
Anzitutto, come sappiamo, le colonie di coralli si riproducono molto rapidamente, oppure altrettanto rapidamente scompaiono, e quindi i fondali subiscono profondi mutamenti con il passare degli anni. Quando si naviga in prossimità delle barriere coralline, occorre che ci sia sempre qualcuno a prua per esplorare il fondo, evitando di procedere contro sole, il corallo in acqua appare di colore marrone, e se si deve condurre la barca attraverso formazioni affioranti (“coral heads” in inglese), bisogna usare il motore, è assolutamente sconsigliabile farlo a vela.
Nelle Isole Vergini accade spesso che in un braccio di mare compreso tra due isole i fondali siano di soli 5-6 metri, e non è facile abituarsi a vedere la barca procedere in queste condizioni, sembra sempre di essere sul punto di grattare la pancia da qualche parte. Per acquistare sicurezza nel valutare ad occhio le profondità ci vogliono parecchi mesi di pratica quotidiana, a volte un fondale di sabbia di parecchi metri appare, data la trasparenza dell’acqua, di pochi decimetri, e viceversa un fondale roccioso quasi affiorante sembra garantire ad un osservatore inesperto almeno tre-quattro metri.
Al minimo dubbio usare Io scandaglio a mano (un semplice piombo di 1-2 kg, legato ad una sottile sagola metrata), avendo l’accortezza di lanciare a prua il piombo qualche metro avanti alla barca, e facendo la misurazione quando la sagola diventa verticale (cioè quando la barca passa sopra il piombo, che nel frattempo ha avuto il tempo di toccare il fondo. In acque libere, ma non lontane da zone coralline, la navigazione deve essere accurata, prendendo frequenti rilevamenti dei molti punti cospicui sempre disponibili, per evitare di finire accidentalmente (ad ex. per effetto della corrente) in una zona pericolosa senza accorgersene.
A proposito delle correnti, queste in genere non sono molto forti (possono superare un nodo solo nei passaggi tra le Isole), ma sono difficili da conoscere, in quanto sono il risultato della sovrapposizione della Corrente Equatoriale costante (diretta grosso modo da E verso W), e della corrente di marea, che si alterna circa ogni 6 ore, e che segue le fasi lunari.
Ma la cosa più importante da ricordare è che la navigazione costiera si deve effettuare solo di giorno, diciamo tra le 09.00 e le 16.00, quando il sole è sufficientemente alto sull’orizzonte.
Non osare mai navigare sotto-costa di notte (i fari sono quasi inesistenti), e se si arriva dal largo di notte aspettare che faccia giorno prima di andare all’atterraggio, a meno che non si possa fare un sicuro ingresso in uno dei pochi porti muniti di sufficienti aiuti luminosi.
E veniamo ora all’itinerario che Mamaroa ha seguito nella sua visita di queste isole, Dovendo partire e ritornare allo stesso punto (cioè Fort de France) avevamo la possibilità di scegliere se fare il giro in senso orario oppure in senso antiorario. Decidemmo di scendere al lasco fino a Granada, e da lì scendere con vento al traverso fino a Portorico e quindi risalire il vento lungo le isole Vergini guadagnando le isole Olandesi e poi Antigua, Guadalupa e Dominica. Se dovesi rifare il giro probabilmente lo rifarei in senso opposto, in quanto rimontare il vento, il mare e la corrente da Portorico fino ad Antigua è stato molto più duro del previsto, e Mamaroa e l’equipaggio sono stati alquanto impegnati per rispettare la tabella di marcia.
Dalla Martinica a Portorico
Il vento è sempre favorevole per scendere da Martinica a Granada, ed abbiamo percorso circa 400 miglia in 15 giorni, insomma ci siamo rilassati completamente. Seguendo la costa sottovento delle due isole di St. Lucia e St. Vincent il vento però può essere deviato dai rilievi, ed anzi nel tratto meridionale generalmente gira da SE, cioè in prua. Entrambe queste isole sono molto povere di risorse (a Castries, capitale di St, Lucia, il tempo è fermo a molti decenni fa); Kingston, cittadina di tipico aspetto coloniale inglese, sulla costa sud di St, Vincent, è il cancello d’ingresso delle Grenadines, uno stupendo arcipelago costituito da decine di isole ed isolotti (questi ultimi in gran parte disabitati), collegati tra loro a volte da bassi fondali e barriere coralline. Un vero paradiso per la pesca e la -navigazione a vela, mentre l’ambiente semideserto invita alla contemplazione.
Un giorno a Cannouan mi unii a dei pescatori locali che avevano dei mono bombola ad aria per la pesca delle aragoste, e mi sono immerso con loro. Su un fondale di circa 20 metri abbiamo trovato un “tappeto” di aragoste, mai viste tante insieme, e poi erano così tranquille che, prendendone una con le mani per metterla nel cesto, quella vicina (a 50 cm, di distanza) restava ferma e tranquilla ad aspettare il suo turno.
L’isola di Grenada l’abbiamo costeggiate sul lato sopravvento, per esplorare le belle e profonde insenature nel tratto meridionale della costa. Nell’entrare in una di queste baie per poco non è accaduto l’irreparabile, avevamo il vento in poppa ed il mare piuttosto mosso non consentiva di vedere bene il fondo e, sebbene stessimo seguendo i prescritti allineamenti per l’ingresso, Annette che era a prua ha cominciato improvvisamente a strillare ed ho virato di bordo appena in tempo per evitare dei coralli affioranti.
Più tardi abbiamo constatato, salendo a piedi su una collina da cui si poteva vedere bene l’ingresso della baia, che la barriera di corallo era molto più estesa verso NE di quanto indicasse la carta. Ecco una conferma dell’importanza di una continua sorveglianza.
A St. George (Capitale di Grenada) ci siamo fermati tre giorni. La cittadina è incantevole, con le case arrampicate sulle colline che racchiudono il porto, nel verde rigoglioso della–vegetazione tropicale, e infine, lo stampo inconfondibile lasciato dalla presenza inglese. Qui abbiamo avuto una “visita” a bordo, per avere lasciato incustodita la barca dalle 19.00 alle 21.00 (eravamo scesi a terra per fare quattro passi). Ciononostante, passato il primo momento di sorpresa, la cosa non ci è dispiaciuta poi tanto, quando ci siamo accorti che dopo avere messo a soqquadro la barca, avevano preso soltanto del vestiario ed un orologio, senza toccare i sestanti né il materiale di navigazione. Come si può avere rancore verso chi è costretto, dopo tre secoli di sfruttamento coloniale, a rubare per coprirsi?
Il 18 gennaio alle 06.00 del mattino lasciavamo St. George diretti a Portorico, distante 350 miglia. Lungo la nostra rotta, circa a metà strada, nel bel mezzo del mare dei Caraibi, c’era L’isolotto des Aves (degli uccelli), appartenente al Venezuela, che in pratica è una striscia di sabbia di circa duecento metri con qualche cespuglio ed alta solo 5 metri sul livello del mare. Il punto con le stelle all’alba del 20 ci collocava a circa 20 miglia a SE da esso, ma non abbiamo potuto fermarci come avremmo voluto a causa delle condizioni del mare, quindi abbiamo proseguito, il vento ha continuato a rinfrescare, e la notte successiva è stata piuttosto movimentata.
Mamaroa viaggiava da sola a 5 nodi con il solo Fiocco 1, senza randa, con il vento ed il mare al traverso, e timone a vento in funzione. Noi eravamo In cuccetta, io occupavo quella so paravento e dormivo. Annette era di guardia distesa su quella sottovento.
Il mare era molto confuso, a causa credo dei fondali relativamente bassi (60-80 metri, il banco di Saba), ed alle 22.30 c’è stato un gran botto, la barca si è coricata sul fianco sinistro ed io sono volato da sopra al telo antirollio e sono finito sopra Annette, completamente sommersa dall’acqua che era entrata attraverso il tambuccio, che avevamo lasciato (imprudentemente) aperto.
Mamaroa si è subito raddrizzata ed ha continuato per la sua strada, abbiamo pompato una mezz’ora (c’erano circa 20 cm, d’acqua sopra il pagliolo) ed un caos indescrivibile in cabina, bottiglie rotte, vetri dappertutto ed un forte odore di rum. Fuori era tutto in ordine, ad eccezione dell’ancora a prua, che era finita in acqua con i 40 metri di cavo e catena e che non è stato facile salpare, per fortuna non avevamo la randa a riva, altrimenti probabilmente avremmo rotto qualcosa (credo che l’albero abbia toccato l’acqua.
Per il resto della notte abbiamo effettuato dei turni al timone, il mare era gonfio e volevo evitare di farci coricare ancora. Il pomeriggio del giorno successivo, alle 16.00, davamo fondo a ridosso dell’estremità occidentale dell’isola di St. Croix, ma senza scendere a terra, avevamo troppo da fare per sistemare un po’ la barca dopo il “bagno”.
Arrivando a Fajardo (Portorico) il 23 mattina, siamo stati intercettati da un motoscafo della Polizia antidroga, che ci ha imposto di ormeggiare in una piccola insenatura vicino alla Dogana, esposta al vento ed al mare. Seguendo le loro indicazioni ci siamo arenati (l’acqua era sporca e non si vedeva il fondo) e per disincagliare Mamaroa c’è voluto molto lavoro, con la randa issata per fare sbandare la barca ed il motoscafo che ci trainava lentamente fuori (abbiamo rotto un passacavo ed una bitta durante l’operazione).
Come se questo non bastasse, sono poi saliti a bordo ed hanno ispezionato per circa due ore la barca centimetro per centimetro. Ripensando all’accaduto, mi sono persuaso di avere commesso un grosso errore nel seguire ciecamente i consigli dei marinai portoricani: loro si sono rivelati dei pessimi marinai, ed io un ingenuo. La lezione mi ha insegnato che quando si è alla guida di una barca non bisogna lasciarsi influenzare da chicchessia, ed invece bisogna usare la propria testa (e le proprie carte). Almeno se si sbaglia non resta che prendersela con sé stessi.
Sostammo cinque giorni a Portorico, un po’ per fare i turisti, e per rilassarci dopo le avversità incontrate nei giorni precedenti, ed un po’ per asciugare l’interno della barca, le 60 carte di navigazione che erano completamente inzuppate d’acqua e per sistemare lo scatolame (l’acqua aveva scollato le etichette, e ci siamo pentiti di non avere scritto in precedenza su ogni scatola il suo contenuto con una matita grassa, come molti fanno).
Da allora in poi, ogni giorno a tavola c’era quello che Annette chiamava “la surprise du chef’, perchè era impossibile conoscere il contenuto di una scatola prima di aprirla.
Le Grenadines costituiscono uno stupendo arcipelago di decine di isolotti, un paradiso verde ideale per i sub o i semplici contemplatori
Nonostante siano piccole e spesso montagnose, molte delle isole sono provviste di piste di atterraggio per aeroplani, Nella foto se ne intravede una a picco sul mare.
continua