Marinaio per scelta o per caso?
Mi dissero: «I tuoi sogni non ti porteranno da nessuna parte». E io andai ovunque.
Joy Musaj
Vi ho già presentato Omero Moretti nella sezione del Personaggio del mese, ma su suggerimento di Sara Teghini, e leggendo delle sue traversate ed il suo libro, ho trovato alcuni passi della sua storia che spero vi incuriosiscano e…… vi piacciano.
Le ho contate, sono trentanove: nella mia vita, fino a oggi, ho compiuto trentanove traversate atlantiche in barca a vela. Non temete, non ho intenzione di raccontarvele tutte: primo perché non me le ricordo e poi perché non credo che interessino più di tanto racconti di alisei, perturbazioni, manovre veliche, turni di notte, eccetera eccetera – ce ne sono già tanti, e che cosa potreste imparare dai miei che non avete già letto nelle storie dei grandi navigatori? In generale credo che sulla navigazione dai libri si impari ben poco: ogni comandante deve fare le proprie esperienze, avere il proprio modo di fare, pensare con la propria testa. La teoria, in mare, vale quel che vale. Vi voglio invece raccontare la mia storia, i miei sbagli, le mie avventure vissute percorrendo centinaia di migliaia di miglia a vela, per passione e per mestiere. Le lezioni che il mare mi ha dato le condivido volentieri, come chi mi ha preceduto le ha condivise con me, aiutandomi non poco a costruire questa mia vita e questo mio mestiere.
Troverete anche indicazioni tecniche, esempi, dettagli da velisti appassionati, ma questo non è un libro tecnico. Non solo perché scrivere un manuale di vela è un’impresa difficilissima, non solo perché in mare dire “si fa così” non ha senso, ma soprattutto perché, prima che un velista, mi considero un viaggiatore. A volte dico anche, per l’orrore di certe orecchie, che sono un contadino del mare: ho con il mare lo stesso rapporto che un contadino ha con la terra, molto fisico e intuitivo, poco teorico. Appartengo, per età e per mentalità, a una generazione di velisti che andava per mare con pochi fronzoli: niente GPS, niente materiali super resistenti, pochi tecnicismi. E quel modo di andare a vela per molti versi è rimasto il mio, anche se oggi a bordo ho tutte le diavolerie tecnologiche immaginabili. Uso la barca per viaggiare, sfruttando il vento senza smettere di meravigliarmi mai, nemmeno dopo tutti questi anni, della sua forza e della sua generosità.
Qualcuno dice che il mio viaggio è rimasto sempre sulle stesse rotte, eppure non è mai stato uguale a se stesso, neppure una volta. In tanti sentono il bisogno di navigare per cercare l’isola perfetta, per sentirsi uccelli d’alto mare, per non vedere terra, per cercare emozioni sempre più forti. Io no.
Per me l’isola perfetta è la mia barca, che è anche la mia casa, e le persone che navigano con me sono il mio mondo, imperfetto, forse, ma come piace a me. E le emozioni il mare riesce a darmele sempre e comunque, anche quando vado da Portovenere alla Capraia. Semplicemente navigo, portando le persone dove vogliono andare, insegnando senza stancarmi mai, condividendo con loro la mia barca e la mia passione.
E la storia del mio navigare comincia ben prima dell’oceano Atlantico, ben prima delle Colonne d’Ercole: comincia in Liguria quando, da assoluto neofita del mare, ho incontrato per caso la mia prima barca. E continua con il crescendo della passione per la vela: le derive, il campeggio nautico, le prime navigazioni con gli amici allontanandoci dalla costa. Dovevo imparare molte cose prima di diventare davvero un comandante e le ho imparate tutte sul campo, a mie spese, dedicando vent’anni della mia vita a coltivare un sogno.
Le prime lezioni del mare
Nell’estate del 1972 scoprii che il modo migliore per godersi il mare non è da una spiaggia ma da una barca. Avevo ventun anni e mia moglie mi portò a trascorrere le vacanze a San Terenzo, in Liguria: un luogo meraviglioso ma con spiagge talmente piccole e affollate che trovare lo spazio per stendere un asciugamano era impresa impossibile. Per caso degli amici ci parlarono di un motoscafo che avevano in gestione, fermo in porto per problemi al motore che nessuno di loro riusciva a risolvere. Di mare all’epoca non ne sapevo nulla, ma i motori potevo smontarli e rimontarli a occhi chiusi e non mi feci pregare per aprire il cofano e dare un’occhiata. Pulii un po’ le candele, feci un po’ di prove e dopo qualche colpo di tosse il motore del motoscafo si mise in moto. Lo mettemmo subito alla prova uscendo in mare e fu così che, per caso, cominciai a diventare un marinaio.
Andare in giro in barca nel golfo dei Poeti era una scoperta, una meraviglia continua. Trovavamo piccole baie riparate dove trascorrere le giornate praticamente da soli, cucinavamo in spiaggia tornando a bordo per passare la notte, le serate le trascorrevamo all’ancora ammirando il panorama di Portovenere sullo sfondo. Fu amore a prima vista e negli anni seguenti non ci furono ripensamenti: comprai prima un piccolo motoscafo di quattro metri e poi un gommone con motore fuoribordo e le vacanze trascorrevano tutte così, per mare, alla ricerca di baie e angoli nascosti. Ogni anno sentivo più forte la voglia di provare barche più grandi, più veloci, qualcosa di nuovo: non sapevo ancora bene cosa cercavo, ma iniziavo a capire che volevo andar per mare il più possibile.
Quella che considero la mia prima vera barca fu la pilotina che comprai sul fiume Po qualche anno dopo: sei metri scarsi, bianca con due strisce blu, mi sembrava bellissima anche senza il motore, che poi riuscii a mettere insieme con vari pezzi di ricambio trovati a buon mercato in giro per la Pianura Padana. Per tutto l’inverno lavorai per attrezzarla, la collaudai sul lago di Garda e, appena arrivata l’estate, mia moglie, mia figlia e io partimmo per l’isola d’Elba. Fu la vacanza più bella della mia vita e l’ultima con la famiglia al completo. Poco dopo mi separai da mia moglie e qualche difficoltà finanziaria nell’azienda mi costrinse anche a vendere la mia amata pilotina.
Già, l’ho dato per scontato e non vi ho detto che in quegli anni, oltre a smanettare tra motori e motoscafi, continuavo a lavorare. Avevo la mia piccola azienda metalmeccanica, con l’officina dietro casa come si usava all’epoca, quattro o cinque dipendenti e il mio bel mutuo da pagare. Facevo il modellista meccanico: oggi ci sono le stampanti 3D che sostanzialmente fanno il mestiere che facevo io e, forse, non sapete nemmeno in che cosa consistesse di preciso. Ve lo spiego: qualsiasi oggetto prodotto per fusione deve avere un modello realizzato in diversi materiali da utilizzare nelle linee di produzione e io facevo proprio i modelli e gli stampi per le fonderie. Ho realizzato modelli di manichini, del cupolino della Ferrari di Villeneuve, di componenti delle Maserati, di un deltaplano: praticamente di qualsiasi cosa. All’epoca non lo sapevo, o meglio, cominciavo solo a intuirlo, ma saper usare bene le mani e gli attrezzi è una delle doti più importanti per chi va per mare. Non ci sono meccanici o elettricisti da chiamare, là in mezzo all’oceano, te la devi cavare da solo, perciò in realtà non ho mai smesso di fare il “ciappinaro”, come si dice dalle mie parti, nemmeno quando, qualche anno dopo, chiusi l’azienda. Ma procediamo con ordine.
La pilotina mi aveva insegnato ad amare l’andar per mare e anche senza la famiglia continuavo a passare tutto il mio tempo libero in Liguria. Come nei migliori romanzi di mare, mi ero fatto amico un pescatore, che un giorno mi regalò un Vaurien, una deriva in vetroresina praticamente distrutta che aveva trovato sugli scogli. Non avevo la più pallida idea di cosa fare per rimetterla a posto, non avevo mai nemmeno pensato di avvicinarmi a una barca a vela, mi piacevano così tanto i motori! Con qualche amico e un bel po’ di tempo a disposizione cominciammo a racimolare nei modi più disparati quello che, via via, scoprivamo essere indispensabile: un albero, le vele, delle cime e un’ancora. Dipingemmo la deriva di rosso fiammante, en pendant con il mio Bedford, che serviva a trasportarla, e la portammo sul lago di Garda.
Potete anche non crederci, ma il posto che scelsi per varare il Vaurien e avere la mia prima esperienza di vela si chiamava (e si chiama ancora) Tempesta. Se ci penso adesso mi rendo conto che sono stato un po’ matto a mettermi in acqua con una deriva sul lago, in inverno, senza avere la minima idea di quello che stavo facendo: le raffiche, che scendendo dai pendii si abbattevano sull’acqua, ci sbattevano qua e là, la barca sembrava un cavallo imbizzarrito, l’acqua era gelida e l’idea di caderci dentro era tremenda. Eppure lì, sul lago, come tanti, ho capito che usare il vento per spostare me e la mia barca era una cosa stupefacente, qualcosa capace di dare un senso di libertà infinito, qualcosa per cui valeva la pena faticare.
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Dalla pianura all’oceano
[…] Ancora una volta il destino mi sta giocando uno scherzo, o forse vuole aiutarmi a ricordare: mentre scrivo queste righe mi trovo nel porto di Sanremo, ormai distante solo poche miglia da casa, nel lungo viaggio di ritorno della mia ennesima traversata atlantica. Fu proprio qui che nel dicembre del 1991 incontrai Hélène III, la barca con cui ho davvero iniziato il mio viaggio.
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Hélène fuori dall’acqua sembrava ancora più grande dei suoi quindici metri, mi intimoriva un po’ con i venti metri di albero e i due metri e mezzo di bulbo, ma fu amore a prima vista. Non era nemmeno completamente finita e sembrava quasi non avesse mai navigato. Era un prototipo, costruito per conto di un famoso mobiliere italiano dal cantiere Mostes di Genova; il disegno era stato realizzato da uno studio di architetti e riprendeva un progetto originale del grande Dick Carter. I vecchi proprietari, non so per quale motivo, non avevano più pagato il leasing e quindi la società l’aveva sequestrata e rimessa in vendita così com’era. Negli anni, in mancanza di acquirenti, il suo prezzo piano piano era sceso, anche se in realtà la barca era praticamente nuova e pronta per navigare. Aveva solo bisogno di piccoli aggiustamenti, modifiche estetiche più che sostanziali, qualche galloccia mancante, un po’ di manutenzione al motore e poco più. Per il resto aveva tutto: vele perfette, cime nuove, divani mai usati e una cucina da far invidia a quella di casa (particolare non da poco!).
Rientrato a Carpi, chiamai subito il cantiere: «La barca mi piace, voglio comprarla, mi faccia il prezzo».
Dall’altro capo del telefono tentennavano:
«Mah, sa, c’è una mezza parola con un francese, non so…».
«No, guardi, forse non ha capito… La barca la compro io, mi dica quanto vuole, che prezzo ha, che domattina le faccio il bonifico! ».
Fui talmente convincente che non seppero dirmi di no, purché il giorno dopo avessi realmente anticipato una caparra. L’indomani alle otto in punto ero davanti alla banca, pronto a fare il mio bonifico e a diventare il proprietario di un sogno: era il 27 dicembre 1991.
Ancora una volta avevo alzato la posta in gioco, e non di poco: dovevo abituarmi a una barca molto più grande, manovrarla, gestirla, fare manutenzione e dovevo trovare clienti in modo sistematico per pagare le spese tutti i mesi. Ero un po’ preoccupato, ho sempre avuto più paura delle banche che del mare, ma la misi in acqua e cominciai la stagione estiva in Corsica.
Quell’estate, mentre navigavo tra Capraia, Macinaggio e la Giraglia, imparando a conoscere Hélène e a tenerla con tutte le sue vele fuori, chiedendomi come avrei fatto a mantenerla, intervenne il destino. A Saint-Florent uno skipper di professione mi parlò dell’unica soluzione possibile, a suo parere, per guadagnare abbastanza facendo il marinaio sulla propria barca: coprire due stagioni. Trascorrere l’estate in Mediterraneo, traversare l’Atlantico in autunno, lavorare ai Caraibi durante l’inverno e rientrare in Italia ad aprile, pronti per ricominciare il giro.
«Ai Caraibi? Ma i Caraibi sono al di là dal mare!» questa fu la mia prima risposta sentendo parlare di traversare l’oceano a vela, ma il seme era gettato e il pensiero cominciò a crescere…
Faccio fatica a descrivere quello che mi passava per la testa mentre rimuginavo se lanciarmi o meno in questa impresa: la mia prima traversata atlantica. Il primo pensiero andò alla barca: come attrezzarla? Cosa mi sarebbe servito, che nemmeno potevo immaginare? Ma, e potete anche non crederci, ciò che più mi dava da pensare non era la navigazione, quanto piuttosto l’organizzazione delle crociere. Chi si sarebbe occupato di fare pubblicità, rispondere al telefono e prendere le prenotazioni se davvero avessi deciso di traversare e stare tutto quel tempo in mare?
Sarà stato perché dopo l’acquisto dell’Hélène non avevo più tanti soldi in banca (anzi, non ne avevo affatto), sarà stato perché volevo smentire tutti quelli che mi dicevano che ero pazzo, ma l’aspetto del lavoro era la cosa che più mi preoccupava. In quegli anni, e forse ancora oggi, nel cuore della produttiva Emilia, in una cittadina di medie dimensioni, la mia scelta di partire era vista come la fuga dello scapestrato che non ha voglia di lavorare, del ragazzo strano che vuole bighellonare con la barca invece di pensare alle cose serie. Ma non era così che vedevo il mio futuro: ero abituato a lavorare fin da ragazzo, non volevo smettere, non odiavo il sistema e la gente, non c’erano situazioni difficili da cui scappare, non volevo fuggire per diventare un eremita del mare. Volevo solo fare un lavoro che mi piacesse davvero, che conciliasse le mie passioni per il mare e per il viaggio con una professione seria e dignitosa.
Il problema di essere in grado di affrontare l’oceano e di avviarmi a un genere di navigazione completamente diverso da quello a cui ero abituato veniva in seconda battuta. Hélène era una barca straordinaria, mi dava fiducia, la rotta non mi sembrava difficile, avrei imparato a conoscere l’oceano e i mari tropicali come avevo imparato a conoscere il Mediterraneo.
Mi sembrò un’occasione che non potevo perdere e cominciai a pubblicizzare la mia prima traversata atlantica e le crociere ai Caraibi. Misi qualche annuncio sulle riviste, diedi il via al passaparola tra gli amici, i turisti che portavo in giro, le persone che frequentavo nei vari porti dove facevo sosta. E cominciai a ricevere telefonate di gente interessata: come funziona, quanto costa, quando si parte, eccetera eccetera.
Ammetto che non ne sapevo molto più di quelli che mi chiamavano. Avevo programmato che la prima tratta sarebbe stata da Bocca di Magra a Gibilterra, poi da Gibilterra alle Canarie e infine la traversata vera e propria dalle Canarie alla Martinica. Tra una cosa e l’altra erano necessari circa quaranta giorni di navigazione, che sarebbero diventati due mesi considerando anche le soste e altri eventuali imprevisti.
Le carte nautiche che mi servivano me le feci prestare e cominciai a studiare: arrivare fino a Gibilterra mi sembrava facile e tutto sommato anche raggiungere le Canarie non doveva essere troppo difficile. La tratta lunga oceanica, invece, sarebbe stata impegnativa, ma contavo di poter fare abbastanza esperienza nella prima parte del viaggio per poi traversare con tranquillità. Anche il sestante me lo feci prestare, il GPS non credo fosse diffuso per il diporto, all’epoca, e comunque non avrei potuto permettermelo. Non avevo mai usato un sestante: lo tenevo in mano e lo guardavo chiedendomi se sarei riuscito a stabilire i punti nave, ma avevo deciso di essere ottimista e contavo di farcela.
Devo essere riuscito a farlo credere anche agli altri perché nell’ottobre del 1992 salpai da Bocca di Magra con otto persone di equipaggio pronte a traversare l’oceano Atlantico con me a bordo di Hélène III.