domenica, Novembre 24, 2024

Nave spaziale Atlantico

Racconto di Sara Teghini

Era bellissima, la nave spaziale Atlantico. Di un bianco lucente e con le sue linee ancora un po’ vecchio stile, tondeggiante e con le ali a poppa, come si facevano una volta, prima che le navicelle spaziali venissero costruite in serie e secondo le nuove mode – squadrate e appuntite come coltelli.

Che senso ha andare in giro per lo spazio con aria cattiva, di sfida?” Si domandava il comandante dell’Atlantico.

Molte cose erano cambiate da quando aveva cominciato lui a solcare lo spazio. Si faceva chiamare Ulisse, ma nessuno sapeva quale fosse il suo vero nome, ne’ quanti anni avesse. A bordo con lui sulla nave spaziale Atlantico, viveva Andromeda, un piccolo robot che aiutava il comandante in tutte le miriadi di cose da fare a bordo.

Ne avevano costruiti un bel po’ negli ultimi anni, di questi robot: Andromeda era stato un esperimento, un robot velocissimo ad apprendere, capace di imitare gli umani quasi alla perfezione.

Bene, preferisco che sia un robot sveglio e intelligente. Ad insegnargli ad andare in giro per lo spazio ci penso io” disse Ulisse quando lo trovò in uno di quei magazzini dove venivano conservate le invenzioni che non avevano trovato successo.

Dopo i lunghi anni, secoli, in cui per navigare nello spazio era stato necessario rischiare, anche parecchio, studiare, prepararsi per molto tempo e poi affidarsi al proprio istinto e alle proprie capacità, negli ultimi tempi le cose erano cambiate – e di molto. Nuovi strumenti permettevano ormai di impostare la rotta verso qualsiasi pianeta conosciuto e di far fare il grosso del lavoro al pilota automatico. Le tempeste spaziali venivano previste con mesi di anticipo, e bastava viaggiare per una manciata di anni luce per trovare un attracco sicuro con tutti i comfort della Terra: spine per il teletrasporto, ristoranti con scorte di insetti freschi, palestre passive, e tutto quello che si poteva desiderare.

I viaggi nello spazio erano diventati accessibili a tutti, e così in tanti chiedevano a Ulisse di portarli a fare una cosiddetta crociera nello spazio: lui era stato uno dei primi a viaggiare tra le galassie da quando era diventato possibile, conosceva a menadito i pianeti e le loro orbite – ed era anche un bravo cuoco.

Per molti anni il Comandante scarrozzò nello spazio personaggi famosi e vecchie signore, bambini e intellettuali, ufficiali della Marina in pensione e cantanti. Tutti scendevano dalla nave spaziale Atlantico come persone nuove: vedere la Terra così piccola e lontana, laggiù, in balia del moto perpetuo di un infinito indescrivibile, era un’esperienza che non lasciava indifferenti.

Per qualche breve anno luce ognuno poteva sentirsi come i primi astronauti, veri esploratori dei limiti della nostra specie, provare il brivido di fluttuare nel vuoto pieno di energia che riempie lo spazio e il tempo, ammirare alcuni dei paesaggi più straordinari dell’Universo, vedere in un giorno decine di tramonti e di albe, i pianeti muoversi e le stelle cadere, essere lontani dall’umanità e dai suoi rumori, passare la notte su Venere e poi volare verso Plutone – non c’era limite alla libertà che quell’infinito sapeva farti provare. E ti sembrava spesso di poter parlare con Dio.

Il comandante era pieno di storie da raccontare: delle tempeste solari che aveva affrontato, di come erano gli attracchi fino a qualche tempo prima, delle lunghe navigazioni spaziali che aveva compiuto, degli abitanti degli altri pianeti. Una storia che piaceva a tutti era quella del nome della navicella spaziale: Atlantico – cosa voleva dire? Perché si chiamava così?

E allora il comandante iniziava il racconto di quando sul pianeta Terra si potevano ancora solcare i mari a vela, prima che il vento si spegnesse e l’acqua diventasse radioattiva. Uno dei mari più belli da navigare si chiamava Oceano Atlantico: era molto grande e un vento caldo favoriva il viaggio per raggiungere delle isole che si alzavano verdi e profumate dall’acqua, ormai scomparse da molti anni. In un tempo lontano Ulisse aveva navigato il mare con un vecchio comandante, e si perdeva spesso in quei racconti.

Era un po’ burbero” diceva “ma aveva tanto da insegnare, e la sua barca era bellissima, tutti la riconoscevano da lontano”.

 

Nel giro di qualche anno il numero delle persone che chiedevano di venire a bordo aumentò in maniera esponenziale, e così le navicelle che solcavano lo spazio. I comandanti non sempre erano esperti e capaci, e le cose si facevano spesso complicate, più per l’imperizia degli altri che per le tempeste spaziali o il moto dei pianeti: in fondo lo spazio faceva quello che aveva sempre fatto, bastava conoscerlo e rispettarlo… Il difficile era prevedere le mosse illogiche e pericolose di certe persone, soprattutto per Andromeda, che da robot non capiva fino in fondo gli umani.

Sembrava che la cosa veramente difficile per questi comandanti inesperti fosse fermarsi, sia fisicamente che emotivamente: gli ancoraggi delle navi spaziali diventavano numeri da circo, il più delle volte accompagnati da urla, agitamento di braccia e ovviamente manifestazioni della propria esperienza e della propria forza. Non c’era più il rispetto per le navi spaziali che c’era all’inizio dei viaggi intergalattici: allora chi navigava lo spazio sapeva bene che la propria navicella era ciò che lo separava dalla furia degli elementi e gli garantiva la vita, tra l’equipaggio e la nave c’era un rapporto quasi simbiotico e sicuramente di amore. Ma ormai sembrava che le navi spaziali fossero dei mezzi come altri, dove dormire e su cui muoversi, senz’anima.

Il Comandante, con enorme pazienza, provava ogni volta a spiegare ad Andromeda che non c’era niente da fare contro certi personaggi, ma quando proprio non ci riusciva lo spegneva.

Riposati un po’” diceva, e si rimetteva al timone godendosi il silenzio e il lunghissimo crepuscolo dei passaggi intergalattici.

Gli anni luce passavano con gioia a bordo della nave spaziale Atlantico: era bellissimo mostrare lo spazio a chi non l’aveva mai visto, insegnargli a muoversi come senza gravità, a riconoscere i pianeti e ogni tanto anche lasciare a qualcuno la cloche dei comandi per fargli provare il brivido di pilotare una navicella spaziale.

Sulla nave spaziale Atlantico il comandante aveva fatto un sacco di lavoretti e ormai ci si viveva meglio che nei moduli di Terra: ogni cuccetta aveva un bagno e un oblò per vedere fuori, le riserve d’acqua erano abbondanti e con gli invertitori di energia montati a poppa ad ogni passaggio di una stella si generava abbastanza corrente da tenere accesi tutti gli strumenti di bordo per intere settimane.

Andromeda si era adattato subito alla vita nello spazio, imparando dal Comandante a riconoscere dal movimento delle galassie le correnti che sarebbero arrivate, ad attraccare nelle basi, a fare le guardie e a pilotare. La cosa più difficile da imparare era stata capire certi atteggiamenti umani – soprattutto certe richieste. Molti per esempio chiedevano di poter camminare toccando il suolo con i piedi. I primi tempi, Andromeda in questi casi tentava di far capire il perché certe cose fossero impossibili a bordo: spiegava che la forza di gravità era contrastata dalla forza centrifuga generata dal moto della navicella e che il risultato era simile all’assenza di gravità, per questo non si avvertiva il peso del corpo. Ma le spiegazioni scientifiche non sembravano avere successo.

Andromeda iniziò allora a dare risposte diverse

“Signora, proprio l’anno scorso un ospite cercando di camminare sul suolo si è rotto una gamba urtando contro il soffitto”.

Ma anche così non sempre funzionava. Con il tempo Ulisse aveva insegnato ad Andromeda come rispondere a queste domande assurde.

Mi spiace signora, ma non c’è gravità nello spazio. Non si preoccupi, potrà di nuovo camminare con i piedi per terra nel giro di poco”.

Con il tempo erano rimaste poche le cose che Andromeda non capiva degli umani: ormai era diventato bravo quasi quanto Ulisse a capire le persone da lontano, ancora prima che salissero a bordo, mentre si mettevano la tuta spaziale nel corridoio di imbarco.

C’erano quelli che si ostinavano a portare a bordo le borse morbide, che andavano tanto di moda in quegli anni sulla Terra, nonostante fosse scritto ovunque che l’unico bagaglio consentito a bordo erano valigie rigide con scomparti separati, dalle quali le cose non volassero via ogni volta che le aprivi.

C’erano quelli che ad ogni pianeta chiedevano di attraccare perché avevano bisogno di non so che, o che volevano passare la notte dietro la stella più luminosa, anche se il Comandante spiegava e rispiegava che non era un attracco sicuro. C’erano quelli che ogni volta che salivano a bordo dopo una passeggiata spaziale si scordavano di togliersi gli abiti usati fuori e obbligavano tutti a fare di nuovo la sanificazione.

C’erano e c’erano sempre stati, ma avevano cominciato a diventare sempre più numerosi. Ogni giorno ore passate a raccogliere i vestiti che volavano via dalle borse, due o tre sanificazioni, ogni giorno spiegare il perché dell’attracco scelto e il perché non si poteva andare da un’altra parte.

Andromeda non capiva. Quale meccanismo faceva desiderare agli umani sempre quello che non avevano?

Perché perdere tempo dietro a queste cose inutili quando si sarebbe potuto impiegare a godere dei paesaggi dello spazio, ad ascoltare le storie di Ulisse, a fare indimenticabili passeggiate spaziali?  Cosa c’era di più bello che guardare fuori dall’oblò della nave spaziale Atlantico una di quelle notti nella Via Lattea, luminose e silenziose, pure come l’infinito?

Continuava a chiederlo al Comandante, ma neppure lui sapeva rispondere, e il dubbio restava. Non avendo bisogno di dormire, Andromeda passava ore a pensare e ripensare a come risolvere la situazione e gli sembrò logico provare una delle poche cose non ancora tentate: far vivere in prima persona agli ospiti le conseguenze di quello che chiedevano di poter fare.

Così capiranno” pensò.

Non fu necessario far passare molto tempo che l’ennesima richiesta strampalata arrivò. “Andromeda, apri l’oblò che devo fotografare il tramonto”.

E invece di dire No, come sempre, Andromeda si avvicinò fluttuando leggero e spalancò d buon grado l’oblò della cuccetta.

In un attimo la violenza dello spazio, che sembrava così pacifico visto dietro a un vetro nella luce del crepuscolo, si scatenò. Lo scambio di pressione fu così repentino e violento che i più vennero risucchiati fuori dalla navicella, urlando e cercando invano di restare aggrappati all’oblò aperto. Chi era riuscito a legarsi nel giro di pochi secondi si accasciò al suolo, soffocando per i veleni del gas spaziale, irrespirabile.

Andromeda richiuse l’oblò, e subito si mise a raccogliere ciò che restava degli ospiti, per far trovare tutto pulito al comandante che stava per svegliarsi.

Questo breve racconto è stato ispirato dalle foto meravigliose della terra che il comandante Luca Parmitano invia dalla Stazione Spaziale Internazionale. Se non lo fate già, vi consigliamo di seguirlo nel suo viaggio – anche quello sempre sulla stessa orbita, ma mai uguale a se stesso.  

Astro Luca su Twitter  – Tutte le foto sono sue