venerdì, Febbraio 21, 2025

13 momenti di paura


Continuano i racconti di Antonio Coppi, il Comandante. Come in tutta questa serie leggete sempre i nomi di Mario e Giovanni, e vi sarete chiesti  chi sono. Mario è il sottoscritto, e Giovanni è un caro amico con il quale siamo stati imbarcati molte volte a bordo del Fabinou.

Spesso il pomeriggio dopo un tè, o la sera, con una bottiglia di Uzo, dopo una coppa di yogurt greco “condito” con miele di castagno, ci sedevamo in pozzetto ed iniziavano i racconti… Forza Comandante, raccontaci cosa è successo dopo l’ultima volta….


13 – Momenti di paura

Come al solito prima di dormire dò una occhiata al meteo sul sito del Governo turco (METU 3 gov.tr). Per stanotte e domani si preannuncia un groppo da ovest con oltre 40 nodi di vento.  Ancorati su fondo ottimo tenitore in una baia così ben ridossata non potrei cercare di meglio per superare una giornata di mal tempo. Decido quindi di rimanere a Kazikili e ne informo i coequipiers.
Il mattino seguente il vento, che ha tirato tutta la notte, comincia a rinforzare, fischiando tra il sartiame e facendo imbardare lo scafo prima su un bordo e poi sull’altro.
Facciamo colazione, poi ci dedichiamo ai lavoretti che di navigazione in navigazione abbiamo trascurato. Per pranzo scendiamo a terra con il gommone.  Qualche “mezzes”, una ombrina sulla brace e una ottima birra Efes alla piccola trattoria antistante il fatiscente pontiletto soddisfano l’appetito. Poi di nuovo a bordo per una pennichella. Giornata di tutto relax. A pomeriggio inoltrato seduti intorno al tavolo per sorseggiare il tè di prammatica Mario mi chiede:
“Hai accennato ad un problema con il cliente delle cambiali. Che cosa  successe di così grave?”
Giovanni e Mario sono molto incuriositi
“Questo ve lo racconterò un’altra volta.”
Ma  Giovanni non si dà per vinto:
“Sai che ho una azienda anch’io, e di problemi ne ho avuti tanti di tutti i tipi. Poi Mario ed io siamo muti come pesci!”

Va bene, se ci tenete ve lo racconto, anche se tutto questo mi farà sembrare uno sprovveduto!
I rapporti con questo cliente romano erano andati avanti sulla base delle sue promesse di far fronte al debito  e della mia ingenuità nel crederlo in buona fede.
Il Salone Nautico di Genova iniziava quell’anno il 9 di ottobre. Già dal 20 di settembre avevo cominciato a telefonare al cliente per chiedergli quando intendeva consegnarmi la barca. Lui traccheggiò e mi disse che me lo avrebbe comunicato i giorni seguenti, perché stava cercando l’equipaggio.  Il trenta lo chiamai di nuovo e gli dissi che sarei andato io a ritirare la barca.  Lui non ne volle sapere e mi disse che si stava organizzando. Il primo e il due di ottobre non mi rispose al telefono. Il giorno 3 mattina arrivò un telegramma assolutamente conciso:
“Barca affondata al largo di Civitavecchia”

Noo!!!”  Mario e Giovanni sono attoniti “ come è successo?”

Che cosa sia realmente avvenuto io non lo so.
In Capitaneria appurai che i’armatore e il suo equipaggio avevano verbalizzato di essere stati soccorsi dal motoryacht di un loro amico, che casualmente passava da quelle parti.  L’armatore aveva dichiarato che la barca si era incendiata probabilmente a causa del caricabatterie e che le fiamme la avevano divorata facendola affondare. L’area approssimativa dell’affondamento giaceva sulla  batimetrica degli ottanta metri.
La barca era stata assicurata – previo perizia – per un valore superiore sia alla cifra a cui la avevo venduta, (oltre ai ventotto milioni a saldo che non mi erano stati dati!) sia al prezzo di listino.  Io intervenni nella causa alla assicurazione, che un anno dopo mi convocò a Genova.  Dopo un breve colloquio il liquidatore mi consegnò un assegno a saldo del residuo prezzo che non avevo incassato dal cliente, a fronte dell’abbandono della causa e con l’impegno di non comunicare all’armatore l’avvenuta liquidazione.
Per evitare di dar conto di questo fatto cedetti i miei eventuali diritti sul relitto ad un amico viareggino per il prezzo formale di cinquecentomila lire (che non gli chiesi mai, anche quando diversi anni dopo l’ex armatore, che non era ancora riuscito a farsi liquidare dalla assicurazione, gli versò dieci milioni per rintracciarmi e farmi testimoniare che avevo incassato il saldo).
Nessuno mi chiese mai informazioni, né fui mai interrogato dalla Capitaneria di Porto o da altre autorità inquirenti, ma io vi voglio indicare alcuni  fatti su cui forse qualcuno avrebbe potuto meditare:

  • Tutta la sentina motore e il vano del caricabatterie erano stati trattati con una preparazione ignifuga, come da specifiche del RINA e del Lloyd di Londra per il CQS (Certificato Di Qualità Superiore) di cui tutte le mie barche erano dotate.
  • Il caricabatterie era elettronico e ventilato, quindi scaldava poco e inoltre funzionava solo in banchina se collegato alla corrente della rete…
  • La bombola del gas era in un vano separato e non all’interno della imbarcazione.
  • Le barche in vetroresina bruciano come torce, ma ci mettono molto tempo ad affondare ed emettono una altissima colonna di fumo nero. Il tratto di mare davanti a Civitavecchia è ben trafficato da navi ed imbarcazioni da diporto, ma nessuno si è accorto di nulla, salvo  l’imbarcazione dei loro amici ( guarda caso! Che coincidenza fortunata!).
  • La barca come da regolamento era dotata di estintori regolarmente carichi.
  • La affidabilità e la correttezza dell’armatore si era già chiaramente appalesata con le cambiali fasulle e tutto il suo successivo comportamento.

Mario interviene:
E mi saltano agli occhi altre strane coincidenze, come quella che l’incendio avviene proprio al momento di riconsegnarti la barca per il Salone e dopo che  avevi proposto di andare tu a prenderla. Ma non basta: il soccorso viene effettuato dallo yacht di un amico dell’armatore che casualmente (!) passava in quel tratto di mare…”
Io non voglio concedermi dietrologie, anche perché credo che le competenti autorità abbiano svolto una inchiesta in merito.  Resta il fatto che per alcuni anni dopo l’incidente ho ricevuto informazioni di persone che vedevano la mia barca in posti diversi una volta in Italia (a S: Margherita di Caorle, dove andai anche a cercarla) e successivamente  all’estero (in Tunisia) Ultimamente – sono passati quarant’anni! – ne ho individuata una in vendita ai Caraibi!

“Mi immagino che problema deve essere stato per te”  mi dice Giovanni.

Certo la voce  che una delle barche costruite dai Cantieri del Trasimeno era affondata si diffuse tra i produttori concorrenti e fu una delle concause che decise il declino prima e la chiusura poi del mio cantiere navale a Viareggio. Altra concausa – certamente più diretta e conclusiva – fu l’affacciarsi al Salone della produzione industriale francese con una imbarcazione  – il First 41 – con prezzi molto concorrenziali a fronte di un inferiore livello qualitativo, ma sufficiente per la richiesta del mercato.   Ma torniamo al problema immediato che mi si presentava: posto prenotato al Salone, prenotazioni in albergo, una montagna di denaro (per le mie tasche)  già speso o da spendere e più di tutto niente barca da esporre e conseguentemente niente vendite.
Ne avevo una in allestimento in cantiere, ma non  era ancora in condizione di essere accettata dal Salone e  se anche fosse passata – visto il buon nome che il Cantiere ed io personalmente ci eravamo faticosamente guadagnato – il Cantiere al quarto anno di vita non si poteva permettere di presentare una imbarcazione meno che perfetta.
Come vi ho detto chiamai prima gli altri due armatori, ed entrambi si dissero dispiaciuti  ma non erano in grado di consegnarmi la barca…. Non rimaneva che il Teal di mr Clement…..
Quando lo chiamai – con una certa titubanza e molta ansia perché  era la mia ultima possibilità – mi rispose con cortesia. Mi disse che la barca era a Villefranche presso il cantiere dove la avevo consegnata due anni prima e che me l’ avrebbe affidata per il periodo necessario  a cavallo della esposizione. In cambio mi chiese solo la pulizia della carena e relative mani di antivegetativa, oltre a qualche piccolo lavoretto di modestissima entità.
Io accettai immediatamente, ringraziandolo e garantendogli che avrei fatto quanto mi chiedeva al meglio delle mie possibilità.  Ci salutammo con l’assicurazione che lui avrebbe dato disposizioni a Joseph Masnata. Finalmente più sollevato cominciai ad organizzarmi: era già il 4 di ottobre. Cinque giorni dopo era fissata l’inaugurazione del Salone.
Avevo bisogno di un equipaggio e mi rivolsi subito all’amico Roberto, il quale accettò di buon grado e mi propose di farsi accompagnare dal nipote Sergio, giovanissimo ma già appassionato di vela. Accettai subito e chiesi a Nello di accompagnarci a Villefranche con la mia auto.
Così la mattina dopo verso le cinque partimmo tutti e quattro verso la Costa Azzurra: malgrado che i bollettini dessero vento forte di grecale e mare formato dovevo assolutamente portare la barca a Genova e non potevo perdere tempo.
Arrivammo prima della apertura del Cantiere Masnata, facemmo colazione al bar del porto e poi Nello ripartì con la mia auto. Rimanemmo d’accordo che il giorno sette ci saremmo rivisti al Salone per  i necessari preparativi per l’esposizione.  Poiché avevo previsto di arrivare via mare con l’altra barca che mi doveva essere consegnata a Viareggio, avevo prenotato il posto espositivo in acqua. Costava di meno e mi avrebbe evitato le spese delll’alaggio e del varo. Quella fu una fortuna, perché se avessi prenotato lo spazio a terra non avremmo comunque fatto in tempo a preparare lo stand.
Quella mattina alle nove già tirava un vento fortissimo, che non si era fermato neppure durante la notte.
Poi arrivò Joseph Masnata e mi consegnò le chiavi del Teal, ma mi sconsigliò di partire quel giorno. Purtroppo il Salone non poteva aspettare, quindi non perdemmo tempo, caricammo il poco che ci eravamo portati appresso e lasciammo l’ormeggio.
Già quando stavo uscendo dalla baia di Villefranche con il mare in prua vedevo Roberto sparire completamente sommerso, un’onda si e una no, attaccato allo strallo insieme al suo giovane nipote, per calare il fiocco 3 e issare la tormentina. Poi riemergeva, quando la barca usciva dal cavo dell’onda e si inerpicava tremando su quella successiva, grondando acqua dalla sua muta gialla e dal berretto di lana blu, tranquillo come se stesse passeggiando il cane.
Con tre mani di terzaroli sulla randa – quella barca non aveva la randa da tempesta – la tormentina già imbevuta d’acqua prima ancora di salire sullo strallo – doppiata la punta puggiammo di quasi due quadranti, e subito il CT 43 con il vento al gran lasco prese velocità, buttandosi giù dalla costa scoscesa di quelle grandi onde  ad oltre 12 dodici nodi, il log inchiodato a fondo scala.
La ruota del timone mi chiedeva tutte le braccia e il peso del corpo per governare in zighellata, sui cavalloni alti e frangenti da poppa. “Guarda avanti, non ti girare mai indietro”. E come per miracolo l’onda arrivava e si rovesciava fragorosamente subito sotto la poppa del CT43, che alzava il culo lasciandola passare. La barca saliva con la prua rivolta in basso per quattro, cinque metri, sempre più in alto, prima di cadere vertiginosamente in discesa lungo la parete dell’onda verso il fondo, quasi ingovernabile. Il peggio lo pigliammo al largo di Montecarlo: una puleggia di rinvio dei frenelli del timone all’improvviso cedette. Sento  ancora vivissima l’impressione della ruota che girava libera e senza più resistenza nelle mie mani, mentre la barca  si traversava di colpo al vento e al mare. Attimi di tensione:  “La barra di rispetto, forza Roberto, è di sotto sulla sua mensola sopra la cuccetta di poppa”.
Mentre Roberto apriva il tambucio e agguantandosi ai corrimano si tuffava all’interno mi guardai intorno. Il mare era completamente bianco e il vento strappava la schiuma dai cavalloni frangenti e la trasportava per centinaia di metri, rendendo l’aria irrespirabile. Tra il cavo e la sommità delle onde si aprivano baratri di sei metri, nei quali il CT43 cadeva, sempre coricato su un fianco, con il boma in acqua, malgrado che le scotte fossero completamente lasche. Per un attimo con il cuore stretto mi persi nello spettacolo terrificante di quelle montagne in movimento, che sembravano alte quasi come la prima crocetta; poi gli schiocchi violenti delle vele mi richiamarono alla realtà.  Cazzarle un poco per evitare di perderle fu duro, ma subito la barca riprese la corsa con una rotta perpendicolare a quella precedente – verso il largo – tutta coricata sul fianco sinistro; l’acqua copriva falchetta e camminata di coperta, invadendo il pozzetto, con gli ombrinali che non riuscivano a scaricarla. Sentii Roberto urlare da sotto, ma non riuscii a capire. Poi vidi la sua testa subito sotto lo scorrevole contro il che mi gridava: “Non la trovo, non la trovo”.
Il Cantiere di Villefranche aveva preparato il CT43 per il salone, svuotandolo praticamente di tutto. Ma sapevo che Joseph Masnata non avrebbe mai commesso un errore di questo genere: “Cercala sotto le cuccette!”     E infatti la barra di rispetto pochi minuti dopo apparve, coricata nel gavone, un metro e mezzo di douglas con il bicchiere in acciaio inox massello.  Superata la morsa della paura ci volle pochissimo per montarla, ma nella manciata di minuti che passarono dalla rottura della timoneria alla ripresa della corsa mi ero  fatto un’idea precisa: la barca non correva pericoli. Se la lasciavo senza governo si metteva da sola in cappa, traversata al mare e coricata sul fianco, la remora del bulbo che rompeva il montare e il frangersi delle onde a poche decine di centimetri dalla murata di sopravvento.  Agguantati tutti e due con entrambe le mani sulla barra, durissima, lascammo di nuovo le scotte e  rimettemmo in rotta verso San Remo. Meno di un paio di ore dopo entrammo nel porto a vela con una accostata di novanta gradi, cogliendo la pausa periodica – ogni sei onde un paio meno mostruose – con la gente sul molo a guardare e ad applaudirci appena dentro.
“Non ti avevo mai visto sbiancare” dissi dopo a Roberto, mentre il CT43 si pavoneggiava in banchina. “Non mi era mai capitato di credere di essere senza barra di rispetto, con la timoneria rotta, in un mare forza otto. E tu, di che colore pensi di essere stato?” Finalmente una risata di liberazione: lui con il suo sorriso malizioso, una palpebra leggermente abbassata, stranamente accattivante. Una risata che conteneva tutto: cameratismo, amicizia, sollievo per la fine fortunata di un’avventura che avrebbe potuto avviarsi per una strada molto diversa. Così pallido ho  purtroppo rivisto Roberto una volta sola, steso sul letto, stroncato da un tumore ai polmoni. Quel giorno sul litorale a poca distanza dal porto mare e vento avevano rovesciato un Comet 11 con l’albero di traverso sui binari della ferrovia. Ne ammirammo con un brivido la fotografia la mattina dopo sulla pagina locale di un quotidiano.
Immediatamente appena finito l’ormeggio mi misi a smontare  il pannello che divideva la zona letto di poppa e la cassa motore dal meccanismo della timoneria. Dovevo trovare il guasto, ripararlo e proseguire per Genova il prima possibile.
Venti minuti dopo guardavo la base della puleggia in bronzo, che fungeva da rinvio dei frenelli della catena galles, ondeggiare sulla piastra di acciaio inox,  tenuta da un solo  bullone passante. Il resto della base della puleggia, troncata di netto alla altezza del foro, era rimasta collegata alla piastra con il secondo bullone.
Tutta la timoneria era stata progettata e costruita dalla Solimar di Forlì, la stessa che doveva poi fornire le timonerie ai 5 prototipi costruiti nel cantiere Tencara di Mestre per Gardini, per la sfida della ventottesima Coppa America. Il quinto costruito MORO – ITA 25 –  a San Diego nel 1992 sconfisse tutti gli altri 7 challenger, compreso  l’australiana New Zealand e fu sconfitto dal defender americano “America 3”.
Telefonai immediatamente ad Orione Samorì dicendogli che una delle sue pulegge si era rotta e mi aveva messo nei guai. Orione non voleva crederci: “Non ci sono difetti di fusione nelle nostre  pulegge”.
Gli dissi che doveva venire immediatamente con una puleggia nuova a cambiarla, perché in caso contrario avrei perso il Salone con tutte le relative conseguenze. Gli dissi anche che se la puleggia non si era rotta avrei pagato io le sue spese e gli avrei offerto una cena di pesce.  Se invece c’era un difetto di fusione sarebbe rimasto tutto a suo carico.  Orione era una persona molto seria e capita l’urgenza si mise immediatamente in macchina. La mattina dopo cambiò la puleggia e si scusò con me: “Prima e unica volta, le controlliamo ai raggi x tutte una per una!” e noi lasciammo San Remo alla volta di Genova. Era il sette di ottobre, e  quando arrivammo c’era già Nello ad aspettarci nella darsenetta del Salone.