Da Bora Bora a Tonga
Vi erano piaciuti i brani tratti dalle “lettere dal Lycia”, di Antonio Penati? Ve ne propongo altri…
Nejafu – Vava’u – Regno di Tonga (25 giugno 2003)
Ciao,
eccoti il racconto della traversata di 1350 miglia che abbiamo fatto da Bora Bora nelle Isole della Società della Polinesia francese a Neiafu nell’isola di Vava’u nel regno di Tonga.
Dovevamo partire il 5 di giugno da Bora Bora, ma le batterie di bordo che mi hanno accompagnato per 8 anni di onorato servizio hanno scelto di esalare l’ultimo respiro a Bora Bora, nel posto più caro del mondo per quanto concerne l’acquisto di batterie; però, contrariamente a quanto potrebbe pensare il comune europeo, Bora Bora è super servita da Papeete con navi e cargo che giornalmente trasportano ogni tipo di materiale e quindi non è stato difficile, anzi molto facile, ricevere n ° 10 batterie nuove da Tahiti. Molto più difficile è stato smaltire le vecchie, stante la rigida (per fortuna) regolamentazione che impone lo smaltimento di sostanze inquinanti in appositi spazi. Caricare le vecchie batterie (400 Kg) sul canotto e portarle nel luogo di discarica è stato molto coreografico. Il 9 giugno tutto è pronto per la partenza, viveri, acqua e vino (carissimo), domani imbarcheremo i viveri freschi ed il pane, poi salpiamo.
Durante la notte una Tropical Disturbance che avevamo visto nelle carte meteo ci investe e passiamo la serata a controllare l’ancoraggio con raffiche di vento che hanno raggiunto i 60 nodi ed il generatore eolico che sembrava un aeroplano in procinto di scoppiare, adrenalina al top e decisione (saggia) di ritardare di un giorno la partenza.
L’11 mattina salpiamo da Bora alla volta di Vava’u nel regno di Tonga: il tempo non è dei migliori ma è in miglioramento. A bordo siamo in sette: io, Mario, Pino, Francesco detto Bucci, Il giovane Lucio, Christian e Andreina. Turni di due ore di timone ma il pilota automatico farà il lavoro di tutti.
Dopo 40 miglia siamo al traverso della piccola isola di Maupiti, proseguiamo per Maupelia, un piccolo atollo abitato da venti famiglie, distante 60 miglia; il mare si fa sentire, l’onda incrociata di 3-4 metri fa le prime vittime, il mare è fastidioso e condiziona molte attività di bordo. Il giorno dopo è anche peggio, onde formate incrociate e vento sui 20 nodi che oscilla da SE a E, onda formata da S per una forte burrasca che si è instaurata al largo diella Nuova Zelanda.
Passiamo vicini a Aiutaki nelle Cook e all’atollo di Palmerston abitato da 50 persone, senza la possibilità di un ingresso e servito da un cargo ogni 3 settimane da Aiutaki. Purtroppo sulla nostra rotta diretta per Nejafu vi sono due atolli pericolosi disabitati e invisibili, e siccome per loro natura gli atolli non si spostano, ci spostiamo noi per evitarli.
L’equipaggio inizia a prendere i ritmi della navigazione ma lo stomaco dei nuovi transoceanici non si è ancora abituato. I più concreti accettano la situazione di mal di mare adattandosi alla situazione e cercando di risparmiarsi per quando sono di turno, i più presuntuosi, cercano di reagire con rabbia a questa situazione che li debilita e che non possono dominare, attribuendo il loro malessere all’alimentazione o all’umidità o agli odori, con il solo risultato che al momento del loro turno sono ko. Bucci, imperterrito, continua a ingurgitare salamini, verze, cipolle ecc.
Dopo cinque giorni di navigazione Nettuno decide di graziare gli argonauti e ci regala un giorno di bonaccia assoluta per riprendere il fiato in attesa di un fronte che attraverseremo la sera senza però traumi, eccetto qualche lampo e molti tuoni.
Dal sesto giorno in poi si instaura un’alta pressione che ci porterà buon vento, anche se un po’ di bolina per un fronte freddo che ci delizierà nell’ultimo tratto con venti sino a 25 nodi.
Arriviamo a Vava’u all’alba del 21 giugno dopo 10 giorni di traversata, ma per il cambio della data a Nejafu è già domenica e siccome qui ogni attività di domenica è vietata per legge, quando ci ormeggiamo alla boa del Mooring non c’è anima viva, tranne una processione che coinvolge gran parte della popolazione.
Siamo talmente stanchi che desideriamo solo dormire.
Solo Christian da segni di insofferenza e vuole a tutti i costi scendere a terra. Qui finisce la sua crociera, vuole cercare in fretta un albergo per trasferirsi.
Le Vava’u sono un arcipelago di decine di isole molto ridossate dal vento, tanto da costituire uno dei pochissimi Hurricane Hole del sud Pacifico. L’impatto è scioccante, sembra di arrivare nei fiordi norvegesi, domani faremo conoscenza con i tongani, nel frattempo ci limitiamo ad osservare il popolo del mare che qui è particolarmente nutrito, ce n’è per ogni gusto e per ogni nazionalità. Domani faremo la pratica d’ingresso e andremo a scoprire la realtà locale che ovviamente non mancherò di descrivervi.
Ho saputo da Luisa che in Italia ha fatto molto caldo; qui la temperatura è sui 25 gradi e la sera si dorme con la copertina, il vento non manca, il ridosso è perfetto e tutto è fermo, quindi sogni d’oro a tutti e alle prossime.
Antonio
S/Y Lycia
Nejafu – Vava’u – regno di Tonga
Port Maurell – isole Tonga 19 luglio 2003
Ciao, eccomi con un altro raccontino dal Regno di Tonga e precisamente nell’arcipelago di Vava’u dove siamo arrivati il 21 giugno e siamo rimasti un mese.
Qui siamo un giorno avanti rispetto all’Italia perché abbiamo passato la linea di cambiamento della data che geograficamente passa alle Fiji, ma politicamente è incluso anche il regno di Tonga.
Questo raccontino lo sto scrivendo da una stupenda baia che si chiama Port Maurell, nell’isola di Kapa, con sabbia bianchissima; siamo in sette barche più un grande veliero neozelandese a vele quadre. Ai lati della baia vi sono dei reef molto interessanti per lo snorkelling.
L’arcipelago è molto bello, ma il clima è freschino e non invoglia a tanti bagni come in Polinesia francese. La temperatura esterna è di 25°, il mare 26°, ideale per vivere in barca, ma per le immersioni è necessario usare la muta.
L’arcipelago è molto fitto di isole e isolette e la marea di quasi 2 metri conferisce alle isole un singolare effetto a fungo. Nell’isola non vi sono sorgenti e l’acqua del paese è quella piovana.
Domani partiamo per qualche ancoraggio nelle isole e speriamo di vedere le balene che qui arrivano in gran numero per partorire; mi hanno detto essere uno spettacolo da non perdere.
Il mercato della frutta e verdura è molto coreografico; ho comprato molte angurie a 2 panga (ossia 1 euro) e tanta verdura molto economica, poi pesce ecc; le vecchiette che vendono la verdura e l’artigianato sono dolcissime. Ogni sabato, al mercato, un mormone schiera una ventina di ragazze, tutte vestite di nero, e le fa cantare; ogni mezzora le interrompe propinandoti un sermone urlato con un microfono collegato ad enormi altoparlanti, un’imposizione religiosa piuttosto fastidiosa.
L’alimentazione di base dei Tongani sono i tuberi: patate dolci, Taro, Manioca, Tapioca e qualche patata.
Altra curiosità che mi ha stupito e la presenza di molte mucche di razza pezzata e vederle pascolare sotto le palme mi ha scombinato i ricordi della mia infanzia che mi fanno associare la mucca ai pascoli alpini.
Non esistono formaggi né latticini né burro locali che invece vengono importati dalla Nuova Zelanda. Le mucche e i maiali qui servono quasi esclusivamente per i pranzi delle cerimonie funebri. Poiché quasi tutti sono imparentati fra di loro, quando muore una persona, tutta la famiglia allargata è invitata al banchetto funebre e non è raro avere famiglie di 300 persone a cui si aggiungono gli amici, per cui la tavolata è spesso di 500-600 persone. L’italiano proprietario del ristorante a Nejafu mi raccontava che spesso questi poveri tongani chiedono un prestito in banca di 700-800.0000 panga per offrire il pranzo alla comunità, poi impiegano 15 anni a restituire i soldi.
I taxi costano pochissimo e si guida a sinistra come in Inghilterra.
La società è divisa in caste e la ricchezza è in mano all’aristocrazia imparentata con la corte reale che è proprietaria tra l’altro dell’unica fabbrica di birra la quale, visto il consumo, rappresenta una vera miniera d’oro.
La proibizione di qualsiasi attività domenicale nasce dall’imposizione religiosa di dedicarsi esclusivamente alla chiesa.
Oggi 3 luglio, giovedì per noi, siamo ritornati alla capitale, Neyafu, per fare un po’ di rifornimenti.
Domani e dopodomani è festa per il compleanno del re e quindi abbiamo dovuto fare oggi tutte le compere.
Al mercato ho acquistato per l’equivalente di 20 euro una bella tapa, tessuto vegetale ricavato dalla corteccia della palma battuta e lavorata per dei giorni, di 2 mt per 1,5. I colori usati nelle tapa sono il nero, il marrone scuro e il rosso sporco, colori un po’ tetri rispetto alle tinte vivaci dei polinesiani, ma qui è tutto molto castigato. L’influenza delle sette religiose anglosassoni si fa sentire pesantemente, le ragazze sono tutte con le gonne lunghe e hanno una velata tristezza, non portano fiori in testa e anche le collane che si mettono la domenica sono poco sgargianti.
In un villaggio di 300 anime vi sono anche quattro chiese di diverso indirizzo religioso e il sabato e la domenica i funzionari fanno a gara ad incitare con ogni mezzo i tongani alla preghiera. La gioia di vivere e la spontaneità quasi ingenua dei polinesiani è qui scomparsa, sostituita da rigide regole di comportamento. Il risultato è tanto evidente da riuscire persino irritante.
Gli uomini hanno tratti più melanesiani che polinesiani, anche se molte tradizioni sono più polinesiane.
La danza che in Polinesia francese è l’espressione sensuale della bellezza femminile e dei colori della natura qui è castigata, ed il ballo, in pratica, consiste nel muovere le mani e la testa stando seduti o al massimo strusciare i piedi con un movimento tra il penitente e il pudico. Niente gambe nude; di portare gonnelline con le cinture di foglie e fiori che esaltano il movimento dei fianchi delle ballerine di Tamurè polinesiane, e i reggiseni fatti con i semigusci dei cocchi, non se ne parla neanche.
L’arcipelago delle Vava’u è molto differente dalle isole della società. Le isole hanno una vegetazione abbastanza differente, le lagune e molte spiagge sono circondate da mangrovie, le palme non sono così abbondanti come nella Polinesia francese, le isole assomigliano più a quelle venezuelane.
Il mare è leggermente più freddo rispetto a quello polinesiano all’interno delle lagune, l’acqua è limpidissima ma piuttosto verdognola per la presenza di alghe sul fondo, la vita sottomarina è molto ricca ma vi è a riva la presenza di una certa fanghiglia dovuta alle maree.
Molte isolette hanno bellissime spiagge, ma l’escursione di marea fa sì che con la bassa marea le spiagge, che sono incontaminate, si prolunghino in fondali fangosi pieni di conchiglie.
E’ un posto molto apprezzato dai giramondo nautici perche’ ci sono ridossi perfetti che ti consentono lunghe soste con la barca ferma come in un marina, la pesca è abbondante e all’interno delle isole trovi quasi sempre frutta e verdura. I villaggi che si affacciano su qualche spiaggia sono abitati da gente povera ma gentilissima e spesso al calar della marea vedi donne dedite alla raccolta dei molluschi.
Le imbarcazioni locali sono poche, i Tongani non sono pescatori ma piuttosto contadini; la canoa a bilanciere polinesiana qui è rara e quando c’è, è quella primordiale ricavata da un tronco scavato.
Alcuni europei ed americani hanno trovato qui il loro insediamento perfetto per iniziare un’attività e per disintossicarsi da una precedente vita non proprio vissuta all’insegna del benessere.
Alcuni hanno avuto in concessione per vent’anni dal re un pezzo di isola e vi hanno costruito la loro casa o un ristorantino, come ha fatto, ad esempio, una coppia di spagnoli, Edoardo e Maria; lui basco, lei valenciana, entrambi ex artisti, musicista lui, ballerina lei, hanno una capanna adibita a ristorante, “La Paella” , dove tutte le sere si suona musica ispano-sudamericana.
Alle Vava’u l’artigianato e’ bello ed economico. Vi sono delle tapa che hanno dimensioni enormi (a misura di parete) e i cesti di pandano, sono ben fatti. Gli uomini sono robusti e forti (il rugby è lo sport nazionale), anche se l’abuso di alcool sta lasciando i suoi segni. Sono di carnagione scura e con tratti molto più melanesiani che polinesiani. Le donne hanno dei bei visi, ma dei culi enormi. Ti salutano con cordialità, ma sono molto riservate e schive.
Sia donne che uomini vanno in giro con delle gonne lunghe, spesso nere, sopra le quali mettono una stuoia di pandano legata con un legaccio anch’esso di fibra, che li fa assomigliare a dei cesti di vimini.
Neiafu è un borgo esteso di casette, chiese e baracche con circa 15000 abitanti. Vi è molto inquinamento culturale americano, un po’ sullo stile caraibico.
Ho ritrovato nella baia di Neiafu molte barche con cui avevo attraversato il Pacifico l’anno scorso; l’oceano è grande ma i porti sono molto piccoli, quindi ci si ritrova sempre.
Ieri a mezzogiorno avevamo appuntamento al pontile con Lilo, un tongano alto e robusto che ci aveva coinvolto in un pranzo a casa sua.
Prendiamo un taxi (piccolo pullmino) e con due panga (1 dollaro usa) arriviamo a casa di Lilo.
Definire la casa modesta è riduttivo: la porta d’ingresso ha un muretto che dobbiamo scavalcare e che serve ad impedire ai maiali di entrare in casa e ai bambini piccolini di uscire in strada in mezzo ai maiali che qui sono frequenti tanto quanto gli abitanti. L’interno della casa è più che modesto, i muri sono in blocchetti di cemento e alle pareti sono appese le tapa, un mobiletto basso con qualche piatto e foto sopra, l’immancabile televisione e per terra una grande stuoia.
La cucina è sotto il portico all’esterno, e per terra vi è ogni sorta di immondizia. La moglie stava cucinando circondata da molti bambini
Si mangia accovacciati per terra seduti sullo stuoione, su cui poi alla sera tutta la famiglia dorme appoggiando la testa su uno sgabellino bassissimo stile giapponese.
Prima del pranzo ho dovuto assoggettarmi al rito della kava e così sono stato iniziato a questa bevanda anestetica-allucinogena.
Il rito consiste in questo:
in una bacinella di legno massiccio con tre piedi, tanoa, viene posto un sacchetto filtrante in cui viene messa la kava (è la radice di un tipo di pianta del pepe, essiccata e ridotta in polvere finissima color nocciola), poi con dei gusci di cocco Lilo versa dell’acqua (in un contenitore di plastica riciclato da chissà quale prodotto !) poi comincia a mescolare e strizzare il sacchetto un po’ come se fosse un grande tè; mentre lo fa gli si illuminano gli occhi e continua, rivolgendosi a me che rappresentavo l’altra autorità del gruppo, a dirmi che è di ottima qualità e che la miscela era riuscita benissimo. A questo punto entrano a fare visita tre Mormoni che qui non mancano mai, ma loro non bevono kava. Inizia la bevuta e, dopo che Lilo l’ha assaggiata, tocca a me: il liquido sembra fanghetta sporca e il sapore è quello di quando ti fanno l’anestesia dal dentista. Mentre mi porge la tazzina di cocco viene pronunciata una frase in maniera molto seria e tutti quelli in giro che non bevono devono battere le mani a un ritmo lento.
La cerimonia si ripete per ogni componente e si continua all’infinito. Io ho bevuto solo una volta ma non ho sentito nessun effetto allucinogeno, forse solo un po’ di torpore. Adesso mi sto interessando per comperare i sacchettini di Kava da regalare ai capo villaggio delle isole dove approderemo, perché questa usanza è molto sentita anche alle Fiji. Il pranzo sulla stuoia, dopo la kava, è messo il cibo diviso in diversi piatti, e dopo la preghiera di ringraziamento recitata dal mormone si inizia.
La forchetta è un lusso riservato a noi occidentali, loro mangiano con le mani.
Nel piatto vi sono: un pezzo di pollo fritto, un pezzo di agnello fritto, un pezzo di maiale fritto, un pezzo di pesce fritto, un pezzo di manioca lessata, poi due ciotoline di foglie di tarò lessate dal sapore di spinaci, banane, angurie e ananas; da bere ha tagliato un cocco fresco per ciascuno (io detesto l’acqua di cocco).
Abbiamo pagato 5 euro a testa, un niente per noi, molto per loro, e avendo visto la numerosa famiglia di Lilo li abbiamo dati volentieri; la moglie mi ha anche cucito la bandiera tongana da esporre sulla barca perché ne ero sprovvisto.
L’altra sera siamo andati davanti a una spiaggia in un’insenatura da favola dove c’era un villaggio e abbiamo partecipato a un altro pranzo tongano con maialino cotto nel forno scavato nella terra e balletto finale di bambine (molto triste).
Oggi abbiamo pescato delle tridacne molto grosse, abbiamo tolto il mollusco per mangiarlo condito con aglio, limone e peperoncino (molto buono) e con le conchiglie, che sono enormi, abbiamo fatto i piatti di portata.
Domani ritorniamo a Nejafu perché dopodomani dobbiamo imbarcare Roberta che arriva da Lucca e abbiamo necessità di rifornire la cambusa.
Ieri ho conosciuto una coppia di americani, lui di San Diego, lei vietnamita, i quali ci hanno invitato a fare un’immersione in un’isoletta a 3 miglia dalla costa dove c’e’ una grotta alla profondità di 25 metri da cui si risale attraverso un camino sino alla volta che si trova all’interno; è stata una bella immersione, anche se non ho visto molti pesci. Vengono continuamente a farmi visita barche che mi hanno incontrato un po’ dappertutto. Ma la vera vita sociale dei giramondo si svolge nei cosiddetti bar del porto. Ogni porto ne ha almeno uno e il passaparola tra questo popolo del mare è talmente capillare che ci ritroviamo praticamente ovunque.
Nejafu è uno di questi porti e il bar di ritrovo per eccellenza è il Marmaid con i suoi pontiletti in legno sgangherati dove attraccano i dinghy. Dal numero di canotti al pontile puoi capire se è l’ora dell’happy hour dove paghi uno e bevi due. In questo bar raccogli le notizie più disparate sui migliori ormeggi sparsi nel mondo, vi è quasi sempre una bacheca del “compra e vendi” e il bollettino meteo, annunci vari, puoi raccogliere notizie indispensabili sui posti che ancora devi visitare e notevole è lo scambio di softwear di cartografia, tutti rigorosamente masterizzati dal giramondo che nella vita precedente faceva l’informatico. Inoltre puoi trovare qualsiasi tipo di prestazione dai giramondo che per guadagnare qualche soldo si offrono per i lavori più disparati.
Io ho usufruito della bravura di una parrucchiera canadese che mi ha tagliato barba e capelli seduto a un tavolo sul terrazzo del bar (costo 2 euro più 3 caraffe di birra che ho offerto a prestazione avvenuta: stava usando il rasoio!).
Venerdì e sabato sera il bar raggiunge il massimo della frequentazione e trovi dal giovane americano con canottiera e bicipiti tracimanti, alla canadese arrivata alla sua decima birra che quando le dici che sei italiano ti ripete sino all’infinito “beautiful , pizza, Roma, Venezia”, fino ai giovani australiani che si improvvisano cantanti e che ti assordano con il karaoke.
Ma ogni navigante che decide di fare un giro del mondo non può esimersi dal frequentare questi bar che, se mi è concesso un irriverente paragone, stanno al navigante come la messa domenicale sta al fedele.
Il bar del porto, stante la multietnicità dei suoi frequentatori, è anche un posto di relazioni sociali quindi può capitare che qualche navigante che non ha avuto un rigido controllo del numero delle birre e dei rhum si trovi il mattino a svegliarsi sulla barca di un’altra nazionalità.
Questa internazionalità dei giramondo fa sì che anche le bellezze locali vengano sollecitate a frequentare il bar durante il fine settimana; sono le più disinibite, quelle che si sono ribellate alla stretta sorveglianza dei vari salvatori di anime, imparano le lingue e vengono a conoscere il mondo attraverso i racconti di questo popolo del mare. Una nota curiosa è che man mano che il livello della birra sale, l’intraprendenza di queste fanciulle raggiunge livelli a dir poco imbarazzanti anche per dei rudi attraversatori di oceani.
La nostra crociera alle Vava’u sta per finire, il tempo è sempre pessimo e le perturbazioni si avvicendano con ritmo incalzante.
Partiremo domani assieme a “Cardeas” la barca di una famigliola belga con rotta sull’arcipelago delle Fiji dal quale ci separano 450 miglia di oceano. Da lì invierò il prossimo raccontino.
So che l’Italia è stretta in una morsa di caldo insopportabile e quindi spero che questa mia ventata di vento antartico vi porti un po’ di refrigerio.
Un abbraccio e alle prossime
Antonio