mercoledì, Gennaio 15, 2025

Le barche hanno un’anima? di Nini Sanna

“KotiK”

Stavo bighellonando sulla banchina di Porto Maurizio, godendomi la meritata licenza dopo nove mesi di navigazione nei mari d’Oriente. Altri avrebbero trascorso il periodo di riposo sui monti o in campagna, io non riesco ad allontanarmi dal mare. Devo odorare il salino, devo vedere le onde frangersi sul molo, devo ammirare la linea armoniosa delle barche a vela e la mole poderosa delle navi. Mi piace sentire il vento fischiare tra le sartie e il grido sgraziato dei gabbiani.

A ridosso della banchina, in un piccolo piazzale, uno scafo nero sull’invaso attrasse la mia attenzione. L’albero rotto in due pezzi appoggiato in coperta, il bompresso con le briglie penzolanti e le incrostazioni sulla carena dimostravano un abbandono prolungato. Mi avvicinai incuriosito dalle linee antiche e filanti. Peccato – pensai – una barca così bella lasciata a marcire. Passai la mano sui corsi di fasciame, quasi una carezza di commiserazione, e nella mia fantasia percepii una vibrazione di corresponsione. Come di cane malato che tenta di ringraziare il padrone per le sue attenzioni. Quasi per gioco iniziai a periziare la barca, con il coltello saggiai la consistenza dei legni, valutai le fessure tra i corsi di fasciame, notai che la ferramenta del timone era corrosa dalla ruggine e che lo specchio di poppa era in parte staccato dalla coperta. Non soddisfatto mi arrampicai sul ponte. Il tambucio era aperto e potei constatare che l’interno se pur angusto doveva essere accogliente prima di aver subito l’assalto del tempo e dell’incuria. Discesi con gli abiti impregnati dall’odore pungente di muffa. Il giudizio finale fu: il fasciame è sano ma attrezzatura, vele, arredi e motore (un piccolo diesel monocilindrico di marca sconosciuta) molto malandati.

Un cartello “vendesi” con un numero di telefono pendeva di sghimbescio sulla poppa. La scritta sbiadita e tremolante mi sembrò lanciare una sfida. L’accettai.

Impiegai i tre mesi di licenza e una parte della successiva per riportare la barca agli onori del mare. Il risultato delle mie fatiche si dimostrò superiore alle aspettative.. Il cutter , con lo scafo calafatato, stuccato e riverniciato di un bel verde brillante, coperta e tuga bianche, albero sartiame e vele nuove, puntava orgogliosamente il bompresso verso il mare aperto. Il nome “Kotik” splendeva sulla poppa in lettere di bronzo antico.
Pensai con un po’ di sicumera che il progettista e costruttore Costaguta che l’aveva varato nel 1923 non avrebbe trovato nulla da ridire sul restauro.
Trascorsi tutte le mie licenze navigando sul “Kotik”, quasi sempre solo. Raramente accettavo compagnia a meno che non fosse di comprovata assenza di loquacità.

La barca rimase con me per cinque anni e insieme ci divertimmo navigando in comunione totale, perdonandoci a vicenda le proprie manchevolezze.
Dovendo assentarmi per un lungo periodo pensai che non potevo abbandonare di nuovo in secca la mia amica, sarebbe ritornata ad essere un relitto. Dovevo cercare di venderla a qualcuno che la tenesse in vita.
Un possibile acquirente esisteva, Marino. Il tipo ogni volta che mi incontrava si sperticava in elogi per il “Kotik” e mi chiedeva insistentemente di portarlo a fare “due bordi”.

Senza troppo entusiasmo, un pomeriggio lo accontentai. Un robusto ponente increspava il mare , forse era la buona occasione per smorzare la sua insistenza. Non fu così. Marino si dimostrò un piacevole compagno e un buon marinaio. Non esitava ad effettuare un cambio di fiocco o una presa di terzaroli sfidando gli spruzzi con entusiasmo.

Ritornati all’ormeggio, spinse oltre la sua petulanza:
< Se ti faccio una buona offerta, mi vendi il “Kotik”?>
< No > risposi secco, ma lui non convinto insistette:
< Ti prometto che la accudirò come una figlia e, quando verrai in licenza, potrai usarla come se fosse ancora tua. >
< Ti ringrazio ma non è la stessa cosa.>

Ora , era giunto il momento di accontentarlo, ero certo che il cutter sarebbe andato in buone mani. Cercai Marino e ci accordammo sulla vendita. Lo feci felice. Io lo ero meno, mi separavo a malincuore dall’amica che mi aveva dato tante emozioni e ore di serenità.

Qualche anno dopo tornai nel porticciolo dove avevo lasciato il “KotiK” ormeggiato al gavitello. Il gavitello galleggiava solitario. Il cutter non poteva essere in mare con quella “maestralata persa” – pensai – forse è sullo scalo per carenaggio.

Mi recai al locale cantiere nautico dove appresi la triste notizia.
Marino era ammalato, non usciva più in mare. La barca era abbandonata senza nessuno che la curasse. Non più il respiro del vento sulle vele, la carezza delle onde sullo scafo e la mano esperta sulla barra. Ferma intrappolata dalle cime di ormeggio nell’acqua morta del porto
Una notte di burrasca il “Kotik” strappò gli ormeggi logorati dalla risacca e spinta dal temporale imboccò l’uscita del porto. Come un uccello che fugge dalla gabbia, si avventurò nel mare in tempesta. La fuga durò poco, il cutter si uccise sfracellandosi su uno sperone roccioso.
Le barche hanno un’ anima…