mercoledì, Marzo 12, 2025

Bernard Moitessier 1

Dopo avervi presentato le scorse settimane quattro testimonianze che ho raccolto su Tabarly, adesso vi propongo la storia di Moitessier raccontata da un giornalista: Fabio Fiori. Non uso l’intelligenza artificiale, sono un po’ refrattario a questo strumento, anche se è utilissimo in certi ambienti, per cui mi sono fatto aiutare dall’amico Mauro Levrini per riportarla in testo, e dopo averla letta non ho saputo resistere alla tentazione di chiedere a Luciano Làdavas di farmi un’introduzione alla narrazione. L’ho incontrato recentemente, gli ho chiesto questo piacere, e sono felice di proporvela.
E’ la persona giusta, perchè come sapete questo grande navigatore ha conosciuto da vicino Moitessier e ha navigato con Tabarly, e chi meglio di lui poteva parlarmi di questi personaggi? Se avete letto l’intervista che ho fatto sia a lui che alla sua compagna Leò, capirete che adesso non devo aggiungere nulla. Buona lettura


Luciano Làdavas

(Moitessier, il distillatore di orizzonti)

Gennaio 1973. Arrivo a Tahiti su un aereo da trasporto della Marina Militare francese, seduto accanto a Eric Tabarly: deve passarmi le consegne del Pen Duick III, con il compito di trasferirlo a Miami. Lui non ha il tempo per farlo, rientrerà in Francia dove lo attende il Pen Duick VI in costruzione.
Sapevo che alla stessa banchina nel porto di Papeete era ormeggiato anche il Joshua e che, prima o poi, avrei incrociato il “vagabondo dei mari del Sud”.
Il giorno dopo il nostro arrivo, un signore alto e magro – in bermuda rosso slavato, camicia azzurrognola senza colletto, una logora bisaccia di cuoio a tracolla – si ferma davanti al Pen Duik e mi rivolge la parola. Trova «fantastique» che un giovane skipper, per di più straniero, abbia il comando di quel marchingegno da corsa, così distante dalla sua concezione del navigare. Mi invita a prendere un tè nel pomeriggio, a bordo del Joshua.
Un piccolo boccaporto, una scaletta a pioli rigorosamente verticale – e mi trovai nel ventre di un sottomarino, soffocante nel clima tropicale. Una specie di sottomarino a vela tutto di acciaio, armato con due pali telegrafici, che lui, grandissimo marinaio, era riuscito a far navigare a velocità più che rispettabili.
Mi raccontò di come, approdato a Tahiti nel giugno del 1969, si fosse deciso a praticare con la fiamma ossidrica un’apertura nella paratia di prua e una in quella di poppa, per dare più aria alla cabina e per poter circolare all’interno, da prua a poppa.
Mi raccontò dei due anni di galera passati a scrivere La lunga rotta. Parlammo di scrittura. Gli chiesi se avesse in mente un altro libro, rispose: «Non sono uno scrittore, non sono capace d’inventare… Riesco a scrivere solo se ho qualcosa da raccontare, e ora sono quattro anni che non faccio cose degne di essere raccontate». Alla domanda se avevo letto La longue route risposi di no, ma che l’avrei fatto. «Non buttare via i soldi, te ne darò una copia io». Mantenne la promessa, con una lunga dedica: il più grande regalo che mi potessi aspettare.

Luglio 1975. Arrivo a Tahiti a vela questa volta, con il Guia e la mia compagna Leò. Ritrovo il Joshua e Bernard. Vivremo insieme la magia (di allora) dell’atollo di Ahe; l’avventura della costruzione dei due faré (abitazioni polinesiane su palafitte); del primo orto senza terra; dei “lavori forzati” per forare il duro e spesso strato di corallo, alla ricerca di acqua dolce.

Venezia, marzo 1990. In presenza dell’editore Giorgio Casti, Bernard mi affida la traduzione del libro che sta ultimando: Tamata et l’alliance (Tamata e l’Alleanza – 1993). In una lettera di quattro pagine, spedita da Parigi il mese prima, mi aveva scritto: “ [….] j’ai un peu sublimé les choses, mais je suis ainsi fait, et je ne pourrais pas vivre sans sublimer tout ce que je vois, touche respire et pense…
Da un anno gli è stato diagnosticato un tumore alla prostata, con metastasi alla gamba destra. È un Moitessier molto dimagrito, claudicante, un po’ curvo: “la bête” (così chiamava il tumore che lo aveva colpito) ha reso il suo aspetto ancora più ascetico. Porta a tracolla la bisaccia di cuoio, è l’instancabile viandante di sempre.
Dicembre 1992, Parigi. Mi riceve nel suo appartamento d’Issy-les-Moulineaux. Si muove con grande sofferenza. Mi offre una tazza di tè nella sala inondata di sole, rallegrata da svolazzi di canarini in libertà. È l’ultima immagine che ho di Bernard.
Gli restava un anno e mezzo da vivere.

Cosa è stato per me Bernard Moitessier? Un incontro privilegiato con una persona accattivante, fuori del comune per sensibilità e intelligenza. Non un maestro, non un mito della navigazione, bensì un essere umano ricco di contraddizioni, sempre in bilico sul crinale tra due culture: quella orientale, con i suoi dei e i suoi miti; e quella occidentale, che gli offriva i mezzi per realizzarsi come navigatore e scrittore, ma che mal sopportava e contestava per il culto del dio denaro e per l’aggressività.
Non stupisce allora la sua espressione tipica: «Il faut que j’aille me récentrer» (Devo andare a risituarmi) – che ripeteva nei momenti di crisi d’identità e che gli ho sentito pronunciare più di una volta. Salpava allora l’ancora, e andava a isolarsi nell’atollo di Suvarov, disabitato e di difficile accesso; oppure in una baia deserta di Moorea, dove ritrovare una ideale unità esistenziale, nella continua ricerca di una dimensione assoluta dell’esistenza. Per sua e nostra fortuna, questa spinta mistica al sublime, che lo portava a isolarsi, conviveva in Bernard con quella che chiamerei la componente hippy. Intuiva che la soluzione dei problemi che affliggono l’umanità non poteva essere semplice, però si lanciava in gesti di disarmante ingenuità; come inviare lettere ai sindaci di Francia, affinché piantassero alberi da frutta nelle vie; o la “deportazione” nell’atollo di Ahe di centinaia di gatti per sterminare i topi, con un esito del tutto contrario.
Di certo fu un grande comunicatore. E un efficace divulgatore, di sé stesso prima di tutto, e di alcune idee che cominciavano a interessare i giovani: l’ecologia, l’attenzione per una natura da salvare, la rivolta contro lo strapotere occidentale; e, soprattutto, una visione romantica del mare quale luogo di libertà fisica e mentale.
Non va dimenticato che le immagini di Moitessier barbuto – che ancora affiorano nei sogni di giovani velisti e non – se le è fatte lui stesso con gran maestria e grande astuzia (un lungo filo di naylon collegato all’otturatore della macchina fotografica), e con altrettanta maestria ha saputo usare la cinepresa che gli era stata offerta prima di salpare per la lunga rotta.

Bernard-Moitessier—Wikiradio-del 21-06-2016

Il 21 giugno 1969 Bernard Moitessier, dopo aver percorso a vela un giro e mezzo del mondo senza scalo in solitario, arriva a Tahiti. Fabio Fiori l’ha raccontato a wikiradio, a cura di Loredana Rotundo, con Antonella Borghi, Lorenzo Pavolini e Roberta Vespa.

Solstizio d’inverno nell’emisfero australe, l’anno è il 1969, quello dell’atterraggio dell’Apollo 11 sulla luna. Il 21 giugno 1969 Bernard Moitessier da fondo all’ancora estendo un ormeggio sulla banchina di Papeete, a Tahiti, dopo 303 giorni di navigazione in solitario senza scalo, in cui aveva percorso 37.000 miglia, cioè quasi 70.000 km, doppiando due volte i capi di Buona Speranza e Lewin, e una volta il mitico Horn, Moitessier, decide di interrompere la lunga rotta. Di solito la notte non è mai buia per me, mi è sempre piaciuta.
Contiene una quantità di cose che parlano, che cantano o che raccontano. Ma questa volta c’è un filo di paura, una paura sorda che non si può definire e che viene dal fatto che in questo momento la notte tace. Sento la trappola. Questa non è una regata tra uomini, è il mio giro del mondo. Il nostro giro del mondo era partito il 22 agosto da Plymouth, nel sud dell’Inghilterra. Per partecipare alla prima regata in solitaria intorno al mondo, la Golden Globe Race. L’aveva organizzata il quotidiano britannico Sunday Times, che secondo la versione dello stesso Moitessier, aveva saputo della sua intenzione di partire per un lungo viaggio senza scalo in solitario. Oltre al francese, nato ad Hanoi nel 1925, anche altri navigatori si stavano preparando all’impresa. Alla partenza della regata si presentarono in 9, tra cui Alex Carozzo e Robin Knox-Johnston.

L’italiano, a causa di un’ulcera, si dovette ritirare in Portogallo, mentre l’inglese alla fine fu l’unico a completare la circumnavigazione del globo in 313 giorni, vincendo entrambi i premi, una Coppa d’oro e 5.000 £, l’equivalente di 100.000 €, entrando nella leggenda della vela oceanica. Nello stesso anno in cui un uomo mise per la prima volta un piede sulla luna, un altro riuscì a completare il giro del mondo in solitario senza scalo. Una competizione ai limiti del possibile che costò la vita a uno dei partecipanti. Don Crowhurst era praticamente un dilettante che da prima finse una lunga navigazione mai fatta, poi perse la vita in circostanze oscure. Raccontate nel documentario Deep Water, la folle rigata. Non si tirava indietro davanti ai rischi, ma quando sei solo…

Tu e l’oceano, quello è il tuo unico universo. Il rischio c’è comunque, è sempre in agguato se fai un errore. Quindi l’immaginazione rappresenta un pericolo. Non si parla di eroi e avventure di mare. Si parla di isolamento e dei delicati meccanismi della mente. Ancora oggi questa regata è considerata la più impegnativa, con la differenza che le barche, le previsioni meteorologiche, le comunicazioni hanno fatto un prodigioso salto in avanti. Nel 2012 il vincitore dell’ultima edizione della Vendeé Globe, François Gabart, ha circumnavigato il globo in solitario in 78 giorni, addirittura due in meno di quanti ne aveva favoleggiato Jules Verne nelle avventure di Mister Fogg. E Moitessier?

Il francese, che aveva già una grande esperienza di navigazione oceanica e godeva di una certa notorietà anche grazie a due fortunati libri, aveva deciso di abbandonare il 1 marzo 1969. Era sulla via del ritorno, aveva già doppiato Capo Horn, stava risalendo l’oceano Atlantico ed era in testa alla regata con un grande vantaggio. Abbandonò, rinunciando alla vittoria, alla fama e ai premi: “Abbandono. Il mio istinto mi dice che questa è la cosa più saggia. Da una settimana il mio stato d’animo è esasperato, mi sento stanco, è diminuito l’appetito. La stanchezza accumulata alle alte latitudini e al passaggio di Capo Horn non è stata smaltita. Durante la burrasca moderata, tre giorni fa, ho passato la giornata in coperta per recuperare la maggiore quantità di acqua piovana. Questo mi ha spossato. La burrasca è stata molto moderata, non superiore a forza 8, in poppa. Mi sento male all’idea di rientrare in Europa. Ce la farò a tenere duro ancora quattro mesi fino a Tahiti, dovendo passare due grandi capi con burrasche che non saranno più quelle dei mesi estivi. Ho bisogno del sole, dell’aliseo, non voglio ammalarmi, ma la cosa è più facile a dirsi che a farsi. E non so nemmeno se, raggiunto il pacifico, Vorrò andare proprio a Tahiti”.
E poi più avanti scrive: “il fatto di voler raggiungere Tahiti senza scalo è rischioso, ma il rischio sarebbe molto maggiore verso nord, più mi avvicinerò, peggio starò se non reggo, verso il pacifico ci sarà sempre un’isola da qualche parte”.
Invece ci riuscì.
E quell’approdo fece scalpore non solo in Inghilterra e in Francia, nazioni da sempre particolarmente attente alle vicende marinaresche, ma anche in Italia. “A Tahiti, dopo 300 giorni di navigazione solitaria”, titola Il Corriere della Sera del 23 giugno 1969, “Il francese solitario è arrivato a Tahiti”, si legge negli stessi giorni sulla Stampa.
Di Moitessier i quotidiani si erano già occupati nel marzo precedente, riportando la notizia del suo abbandono anche con titoli allarmistici. “La moglie del navigatore teme che sia impazzito”, si legge sul Corriere della Sera del 21 Marzo 1969. Un titolo che comunque rispecchia l’inquietudine di Francois, anche in relazione al fatto che il marito aveva rinunciato ad imbarcare la radio offerta gratuitamente dal Sunday Times, preferiva lanciare messaggi in tubetti d’alluminio con la sua fedele fionda, sui ponti delle navi che incontrava. In quello più noto, comunicava al Sunday Times e al mondo la sua decisione: “Continuo, senza scalo, verso le isole del Pacifico, perché in mare sono felice e forse anche per salvarmi l’anima. “No, io non sono perso in mare, è in fondo a me che c’è un serio problema di navigazione”. Francois, poteva immaginare questi pensieri, avendo condiviso con Bernard, qualche anno prima, una altrettanto lunghissima navigazione attraverso due oceani, Doppiando Capo Horn, senza scali intermedi, ma su questo torneremo più avanti. Perciò Francois conosceva bene anche il Bernard marinaio e la sua irresistibile attrazione per la bellezza dei mari del Sud e per il misticismo dei tre grandi capi. Comunque sia, nel 1969 lo yogin di Capo Horn, come l’aveva definito l’amico Velista Alain Colà, ritroverà a Tahiti tutti i problemi, i conflitti, le contraddizioni dell’Europa dove non aveva voluto fare ritorno. Problemi a cui dedica le ultime pagine del suo terzo libro, “La lunga rotta”, quando sveste i panni del marinaio per mettere quelli dello scalzacane, dell’hippy, del vagabondo, dell’ecologista che, riprendendo le parole di Steinbeck, invita l’uomo a farsi carico delle sue responsabilità verso la natura, Moitessier il solitario, Moitessier il sognatore, Moitessier l’eterno ragazzo del maggio francese, a Tahiti combatte le stesse battaglie ambientali degli amici della terra di Parigi.

Capo di Buona Speranza. Mi pare di vedere la gioia di Francoise quando riceverà il messaggio che con la fionda ho lanciato sulla coperta di un peschereccio. Lei sa che a bordo tutto va bene, che non sono smagrito. Vedo l’eccitazione dei ragazzi che girano per casa gridando – Il Joshua sta passando Buona Speranza – eppure, nella partita, è un carico pesante da avere in mano. Questo bisogno di rassicurare la famiglia, gli amici, di far loro avere notizie, immagini, vita. Di trasmettere quella cosa infinitamente preziosa, quella pianticella invisibile che si chiama speranza. Ma il viaggio continua”.
Ma per non idealizzare troppo l’uomo, ci vengono in aiuto le parole della moglie Francois, che durante la lunga rotta era rimasta a casa con i tre figli: “Bernard aveva il tempo di immergersi in altri mondi, più poetici, nelle nuvole delle sue erbe, evidentemente dopo aver vissuto tra il cielo e il mare per 303 giorni, in una solitudine un’immensità assoluta, lo si poteva capire. Non era riuscito a tornare con i piedi per terra”. Anche questa immagine, probabilmente caricata dal dolore della moglie abbandonata, non restituisce la personalità di Moitessier, complessa e per alcuni aspetti contraddittoria. Per raccontare l’uomo prima che il Navigatore, bisogna fare un lungo passo indietro e ritornare alla sua infanzia in Indocina, alla terra delle sue radici. L’Indocina della prima metà del 900 era una colonia francese che comprendeva gli attuali Vietnam, Cambogia e Laos. I genitori di Moitessier, appena sposati, avevano lasciato la Francia per andare prima per poco tempo in Madagascar e poi in Indocina, dove nascono Bernard, i tre fratelli e la sorella, il padre. Dopo poco rileva un’impresa commerciale i cui i ricavi vengono investiti in terreni dove può soddisfare la sua grande passione per l’agricoltura. Questa condizione economica agiata non risparmia però ai figli un’educazione spartana.
Certo è che se la scuola non sarà la passione di Bernard nello sport, invece, i risultati saranno brillanti, soprattutto nel nuoto. Ma indimenticabili saranno le esperienze giovanili fatte nel villaggio di pescatori del Golfo del Siam, dove Bernard con la famiglia, trascorre i mesi delle vacanze scolastiche fra mare e foresta. Sono queste le due scuole preferite. È qui che ha fini i sensi indispensabili per sviluppare un rapporto intimo con la natura. Qui scopre anche la spiritualità dell’Oriente e la meraviglia della navigazione. Sono proprio i pescatori a portarlo in mare per i primi grandi bordi a vela nel vento del largo. Anni felici che renderanno ancora più drammatico il decennio successivo, fatto di guerre nazionali e civili di inaudita violenza.
L’Indocina sarà dapprima invasa dal Giappone, poi, dopo la fine del conflitto mondiale, sprofonderà nella guerra d’indipendenza, ancora più tragica e lunga. Come sempre accade, le mostruosità della grande storia si intrecciano con le piccole storie familiari anche dei Moitessier. Bernard e i fratelli vengono trascinati nell’orrore di Saigon e si macchiano di crimini assurdi. Un fratello disgustato da questa guerra fratricida, fuggirà dal paese mentre l’alto si toglierà la vita per il terribile rimorso di aver ucciso Baimà, un fratello del villaggio natale. Come qualsiasi uomo su questa terra scriverà Moitessier.
Dopo sette anni di inferno, anche Bernard decide di fare un fascio del suo passato e dargli fuoco, riprendendo le parole dell’appassionante autobiografia. Nel 1952, a 27 anni, Moitessier lascia l’Indocina attraversando il Golfo del Siam da solo.
A bordo di Marie Teresa, una piccola giunca a vela. Non è molto esperto di navigazione, anche se non è la sua prima avventura. Aveva fatto alcune veleggiate da bambino negli anni 30 a bordo di giunche armate con vele fatte di foglie e intrecciate di palma sotto la sapiente guida dei pescatori. Poi le uscite in piroghe in compagnia dei fratelli e di tanti amici, figli degli stessi pescatori. Amicizie, peripezie che rimarranno per sempre nel suo cuore. Nel 1945, a vent’anni fa invece la sua prima grande evasione sul mare, a bordo di un’altra giunca di proprietà di Abadì, un avventuroso francese che per Bernard sarà un padre spirituale. Dopo un anno di servizio militare, Bernard fece anche una breve esperienza di cabotaggio costiero, interrotta dalle autorità francesi per il sospetto di contrabbando d’armi con i ribelli. A 22 anni parte per un lungo viaggio in Europa, attraversato in bicicletta, pedalando, o in autostop, quando trova posto anche per la bici.
Sei mesi in cui scopre la vitalità culturale francese, comunque insufficiente a trattenerlo a lungo. Allora ritorna nel suo amato paese di selvaggi, incontra sul piroscafo Marie Thérèse, il suo primo breve grande amore, l’abbandonerà presto per paura di rimanere incatenato moglie e figli a un’Indocina violenta che non riconosce più.

1-continua